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 2021  gennaio 09 Sabato calendario

Biografia di Nicola Crocetti raccontata da lui stesso

Come dopo un tumulto di parole, sarà forse quell’ultima frase a offrire la chiave di un’impresa oceanica. Che Nicola Crocetti ha pensato e accarezzato per quasi mezzo secolo e realizzato negli ultimi sette anni della sua vita: tradurre 33.333 versi del poeta greco Nikos Kazantzakis. Versi che instillano in chi legge ammirazione e sgomento. La sua Odissea si chiude infatti così: "oggi ho visto svanire come un pensiero il mio amato". È Ulisse che se ne va, definitivamente.

Crocetti non possiede la furia creatrice di Kazantzakis, ma la calma sì, e il bisogno di capire perché un uomo dedica quasi l’intera propria vita a un progetto le cui misure sfiorano il cielo.
Lo sento telefonicamente, ha una voce cupa, compressa, come se stesse sempre sul punto di ricominciare. Perché la poesia è fatta di umiliazioni, di fallimenti, di marginalità ed egli, che poeta non è, si è dato questo compito: servirsi della poesia e servirla per respirare, muoversi, morire e rinascere. O provarci almeno: «La poesia è un modo per sconfiggere la morte o conoscerla perché il tempo che fugge, come i pensieri, è anche il tempo che resta nella memoria incisa in un verso, o in trentamila come quelli di Kazantzakis».
Da dove nasce la sua passione per l’Odissea di Kazantzakis?
«Forse da una sfida lanciata in gioventù e covata a lungo. La prima volta che provai a tradurre l’Odissea di Kazantzakis avevo vent’anni. Ma non ero pronto.
Poi nel 2013, dopo aver tradotto più di centomila versi e migliaia di pagine di narrativa, tra cui quattro libri di Kazantzakis, pensai che fosse giunto il momento. Ci ho messo sette anni, ma facendo molte altre cose nel contempo».
Un tempo lunghissimo se misurato a quello che impieghiamo per fare qualunque altra cosa.
«Però ne valeva la pena. L’Odissea è un capolavoro, l’ultimo grande poema del Novecento».
In che rapporto è con il poema omerico?
«Ne è la continuazione. Immaginata, oltretutto, da un greco che aveva nel cuore la lingua di Omero. Ma scritta nella lingua demotica, ossia popolare. Per cui è come se un nuovo Omero avesse creato un nuovo Ulisse».
Quanto nuovo?
«L’Ulisse di Omero era un ostaggio degli Dèi, un trastullo del destino. Kazantzakis ne fa un uomo che si riappropria del proprio destino. Tanto il primo Ulisse è identificabile con l’astuzia, quanto l’altro è riconducibile all’Utopia».
L’impresa di Kazantzakis fu ritenuta oltraggiosa da molti lettori e critici greci.
«Quando uscì, nel 1938, la Grecia era un paese culturalmente e politicamente arretrato. Tra le persone istruite si parlava e si scriveva la lingua dotta, incomprensibile al popolo. Da quella classe e dai suoi rappresentanti culturali fu considerato blasfemo che qualcuno osasse intitolare un poema Odisseautilizzando, oltretutto, una lingua "bassa"».
L’ha chiamata demotica.
«Il poema di Kazantzakis contiene 320 mila parole. Molte di esse ancora oggi non sono reperibili in nessun dizionario greco, perché l’autore le haraccolte direttamente dalla bocca di pastori, contadini, pescatori e marinai di villaggi di Creta e delle isole dell’Egeo. Parole popolari destinate a scomparire e che il suo poema ha salvato dall’oblio».
Il lettore italiano probabilmente conosce Kazantzakis solo come l’autore di Zorba il greco.
«Fu una specie di anomalia per la cultura greca: un autore profondamente innamorato delle sue radici, ma al tempo stesso aperto all’esperienza degli altri paesi. Viaggiò a lungo in Europa, la conoscenza di molte lingue lo portò a tradurre Bergson, Nietzsche, Darwin, Goethe, Machiavelli e la Commedia di Dante. Era uno spirito libero, le cui idee gli valsero l’ostilità della chiesa ortodossa che lo definì un Anticristo, un comunista e un corruttore di giovani. I suoi comportamenti scatenarono l’invidia dei cenacoli intellettuali e la riprovazione dei politici. Nel 1956 perse il Nobel dopo una campagna di denigrazione che il suo paese gli scatenò contro».
Quell’anno il premio fu assegnato ad Albert Camus.
«E lo scrittore francese inviò un telegramma a Kazantzakis in cui scrisse: "Voi l’avreste meritato cento volte di più". Morì l’anno dopo per una leucemia che aveva contratto anni prima».
L’amore per la Grecia moderna da dove le proviene?
«Sono nato in Grecia, a Patrasso, da madre greca e da padre di origini italiane anche se nato in Grecia. Con il suo lavoro riuscì a mettere insieme una piccola fortuna. A metà degli anni Trenta, con i suoi fratelli, decise di prendere la cittadinanza greca. Si scoprì che la legge imponeva il cambio di religione e del nome. I suoi fratelli accettarono convertendosi tutti alla chiesa ortodossa e mutarono il nome da Crocetti a Stavropoulos. Mio padre si rifiutò. Quando ci fu l’invasione fascista, in quanto italiano venne arrestato e internato e alla fine della guerra espulso come nemico della patria. Gli confiscarono i suoi averi, soprattutto le terre, e così ci ritrovammo disperatamente poveri. Tutti i beni sequestrati non ci vennero mai più restituiti».
Cosa faceste?
«Ci trasferimmo, come profughi, nel 1946, a Firenze. I miei genitori costretti alla fame, mentre io e mia sorella gemella fummo rinchiusi in un collegio. Lì almeno potevamo mangiare e studiare».
Immagino siano stati anni durissimi.
«Segnarono la mia adolescenza. Alla fine ci trasferimmo a Milano, dove sarebbe stato più facile trovare un lavoro. Qui ho fatto l’università, qui ho lavorato per alcuni anni come redattore del Reader’s Digest. Poi nel 1972 vinsi una borsa di studio per gli Stati Uniti. Fu un’esperienza fondamentale. Al ritorno in Italia andai a lavorare con Montanelli che aveva appena fondato Il Giornale. Mi resi conto ben presto che il giornalismo non era la mia vera vocazione.
Mollai tutto e feci la cosa più folle e gratuita: aprii una piccola casa editrice di poesia».
Perché proprio la poesia?
«Per un profondo interesse personale. Avevo letto Pascoli a undici anni e poi D’Annunzio e i poeti italiani del ’900. I classici greci e russi furono una scoperta.
Infine vennero i poeti stranieri: Rilke e Whitman, Heaney e Walcott e i poeti greci contemporanei: Kavafis, Elitis, Seferis e Ritsos. E poi sapevo che la poesia non interessa a nessuno. Perciò avrei avuto meno concorrenza».
In un paese come il nostro dove in molti scrivono versi ma pochi leggono, che senso ha avuto fondare una rivista di poesia?
«L’idea mi venne negli Stati Uniti, dove riviste analoghe sono diffuse. Avrebbe dovuto dirigerla Giovanni Raboni, ma un brutto infarto lo costrinse a rinunciare. Affidai la direzione prima a una poetessa e poi a un poeta. In entrambi i casi il risultato fu un disastro. Così presi io la direzione. Nella convinzione che ci fosse uno spazio, fuori dai circuiti accademici, per farla crescere. Nei momenti di splendore la rivista toccò una tiratura di 50 mila copie mensili. Poi si assestò sulle 20 mila copie. Credo sia stato un piccolo miracolo editoriale. Al quale ha contribuito un poeta che ho sempre considerato un meraviglioso amico: Ghiannis Ritsos».
So che insieme avete girato l’Italia alla scoperta delle sue vene poetiche.
«Fu un’esperienza unica che realizzammo nel 1976.
Avevo conosciuto Ritsos avventurosamente, quando in Grecia c’era ancora la dittatura militare. Era stato arrestato perché era un uomo di sinistra e poi scarcerato perché malato di cancro. Vista la sua notorietà, fu più volte candidato al Nobel, il regime ebbe paura che morisse in un campo di concentramento. Scontò il resto della pena confinato a Samo, a casa della moglie. Fu lì che lo conobbi.
Diventammo amici dopo la caduta, nel 1974, della dittatura dei colonnelli. Quando girammo l’Italia in lungo e in largo mi parlò della sua vita difficile, dei dieci anni da internato. Raccontava e scriveva e io, accanto a lui, traducevo. Ne venne fuori un "Diario" straordinario. Ritsos è stato, insieme al grecista Ezio Savino, il mio migliore amico».
Forse fu il ponte con quella Grecia che le era toccato abbandonare.
«In un mondo di contraddizioni e di deprimente caos, Ghiannis tenne vive le mie radici».
Che cosa ha conservato di quella terra?
«Tuttora ho un rapporto affettivo molto forte con la mia madre patria. Ho amici e un folto numero di parenti. Due o tre volte l’anno vado a trovarli ed è come tornare alle origini. Purtroppo in Grecia non ho più una casa. Quella natale, a Patrasso, fu sequestrata dopo la guerra e venduta a qualcuno che ignoro. Nel frattempo la vecchia abitazione è stata demolita e al suo posto hanno costruito un condominio».
Lo splendore della Grecia antica urta contro le vicissitudini della Grecia moderna. Come vive o ha vissuto questa specie di frattura?
«È un problema che oggi tormenta molti greci. Il peso è avvertito soprattutto da intellettuali, scrittori e poeti che con quella tradizione convivono idealmente e devono farci i conti. Per la gente comune la classicità in qualche modo è scontata. Rivive nei ricordi scolastici di ognuno, nell’alfabeto, nei toponimi, nei nomi delle vie e in quelli di battesimo delle persone.
Molti si chiamano Pericle, Aristide, Platone, Socrate, Euripide, Sofocle, Ares, Eracle. Le donne portano i nomi di Atena, Antigone, Dafne, Danae; o hanno nomi di muse: Talia, Calliope, Melpomene. Penso anche che i greci abbiano un senso di orgoglio e di appartenenza più forte degli altri popoli».
A cosa lo attribuisce?
«Alla lingua, la più antica parlata al mondo. Anche se la remota grafia bizantina, con gli accenti e gli spiriti, nel 1982 è stata semplificata con l’adozione di un greco monotonico, con un unico accento acuto.
Kazantzakis, nella sua Odissea, aveva fatto questa scelta mezzo secolo prima e per questo, quando pubblicò il suo poema, tutti gridarono allo scandalo».
Lei una volta ha detto di sentirsi esausto, augurandosi che qualcuno prosegua il suo lavoro. La vita è anche trovare gli giusti eredi?
«Ho vissuto un’esistenza piuttosto faticosa. Credere nella poesia è stata dura. Mi ha tolto energie mentali, forza fisica e soldi. Mi ha messo di fronte a persone che a parole erano con me e poi mi giravano le spalle se chiedevo un piccolo soccorso. Diciamo che è stato quasi mezzo secolo di faticoso galleggiamento, sempre con la bocca a livello dell’acqua. Per cui la recente acquisizione della mia casa editrice da parte del gruppo Feltrinelli è un sollievo e una grazia, perché mi ha sgravato dalle preoccupazioni economiche e mi consente di fare libri che altrimenti non avrei mai potuto fare. Quanto ai "giusti eredi" ho qualche ottimo collaboratore che potrà prendere il mio posto».
Le dispiacerà lasciare?
«È naturale provare un senso di smarrimento. Ma lo è altrettanto sapere che arriva sempre il momento in cui dover passare il testimone. Scegliere il momento giusto sarà la dimostrazione di un buon rapporto con le cose realizzate».
Si può dire che tra le cose realizzate la poesia occupa la posizione più importante. Ha mai scritto versi?
«La poesia richiede una grande dose di passione, un sentimento totalizzante di appartenenza. Molti la praticano come se fosse un hobby, arrivano perfino a fregiarsi del titolo di poeta, come se fosse uno status symbol, in virtù del quale rivendicare una superiorità rispetto agli altri. I risultati si vedono: una miriade di versi mediocri, da persone che non hanno nessuna consapevolezza di che cosa sia la profondità poetica.
Quanto a me, avrò scribacchiato qualcosa nell’adolescenza. Niente di memorabile. Perché penso che la poesia sia come l’acne giovanile: nell’adolescenza viene a tutti e poi passa. A pochi restano i segni sul volto. Sono essi i veri poeti».