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 2021  gennaio 09 Sabato calendario

Lunga intervista a Mogol

Incontriamo Mogol in un pomeriggio di sole durante la 77a Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.
L’intervista è proseguita tempo dopo nella casa di Mogol, ad Avigliano Umbro, presso la sede del "Centro europeo di Toscolano" (Cet), fondato nel 1992 con lo scopo di qualificare nuovi professionisti della musica pop. Mogol e la moglie Daniela ci hanno accolti, facendoci gustare una conversazione che, in realtà, è continuata per due giorni interi, intervallata dai pasti e da sessioni di ascolto musicale. Una vera immersione.
Qual è per te il rapporto tra la parola e la musica in una canzone?
Come lo definiresti?
«Sintonia, senz’altro. Le note si legano ai contenuti, alla storia che viene raccontata nella canzone e in ogni singola frase musicale. È nella melodia che cerco il testo, le parole che vi sono nascoste, il senso che il compositore costruisce con le sue note. Io esprimo a parole l’anima di una musica. La storia che il testo racconta nasce dalla frase musicale principale. Se c’è un crescendo nella storia, deve esserci un crescendo nella musica. Se c’è una frase musicale intima, la parola deve essere intima. Se la frase musicale è aggressiva, il testo deve essere aggressivo. Il disegno della parola e quello della musica si compenetrano. C’è come un flusso biologico tra la parola e la musica.
L’espressione musicale deve essere la stessa dell’espressione poetica.
La musica mi suggestiona, e la seguo come una foglia che, cadendo, si abbandona al vento, come un fiocco di neve che si posa lieve sul suolo».
Hai venduto 523 milioni di dischi, secondo le statistiche di due anni fa. Come si fa? Come si vive questa cosa?
«Non si fa nulla. È un regalo. Non lo avrei mai immaginato. Ma è questa la cifra. È un regalo. E si riferisce a tutti i Paesi del mondo».
Hai scritto per Mina, per Celentano…
«Non per loro. Non ho mai scritto per un cantante. Quando scrivo, sono l’autore. Io scrivo come autore».
La canzone è poesia?
«Non so rispondere, ma certo la canzone è fatta di musica e non solo di parole. E la musica aumenta il valore poetico di un testo. Il poeta può avere un grande impatto nel suo tempo. Non è detto che questo impatto duri nel tempo col cambiare della sensibilità. Un poeta, se non ti dà più emozioni nel leggerlo, se cessa la sua carica poetica, diventa parte della storia passata».
Qual è il tuo poeta preferito?
«Sicuramente Leopardi, anche se il suo rancore nei confronti della natura non fa parte del mio mondo».
Le tue parole sono state ascoltate da milioni di persone. In questo senso tu hai una responsabilità. La senti?
«Sì, sento sempre la responsabilità.
Quando ho scritto "guidare a fari spenti per vedere se è facile morire", ho capito poi che qualcuno ci ha provato. E questo è grave. Ho capito che dovevo avere maggiore senso di responsabilità.
Adesso è insito in me in modo direi automatico. Si è come inserito in me nel momento in cui scrivo».
Comporre significa essere creativi e liberi, ma anche rigorosi.
Ogni parola deve essere precisa.
Tu vivi questa tensione tra la libertà dell’ispirazione e il rigore?
«Nel comporre c’è una "meccanica", c’è la metrica, ci sono le rime… ma è il senso della musica. Io ormai ce l’ho in automatico. Il rigore non è in contrasto con la libertà. L’ispirazione è sempre dettata dal senso della musica. Però la rima ti può portare a un fatto creativo. Intendo dire che ti può suggerire uno sviluppo della canzone che non avevi previsto.
Una gabbia formale può diventare un fattore di ispirazione».
Qual è stata la canzone più difficile da scrivere?
« Emozioni, perché la prima parte l’ho scritta in uno studio in mezz’ora e la seconda parte l’ho scritta su una giardinetta con moglie e due figli. Io guidavo e non potevo scrivere. Tutto a memoria. E ho dovuto ricostruire tutto. Ho impiegato due ore e mezza. E non avevo la penna per scrivere!».
Parlando di te e di Battisti, hai detto che eravate diversissimi, perché lui aveva un pensiero verticale e tu un pensiero orizzontale. Che cosa intendevi dire?
«Lui era un analitico, analizzava nel profondo qualunque cosa. Io con un’attenzione mobile. Lui era chiuso, riservatissimo. Io no. Lui era un matematico, io più attento alla letteratura. Lui capiva subito qualunque meccanismo. Io nulla.
Ricordo un episodio. Un giorno arrivò con sua moglie e mi invitarono a mangiare sulla spiaggia. Tirò fuori dalla macchina un surf, lo montò, si mise la tuta e disse: "Guarda che cosa ho imparato a fare". Andò nel mare e lo vidi scomparire, onde gigantesche… si era allenato così tanto… Incredibile. Noi ci integravamo».
Tu scrivi aforismi. La comunicazione digitale oggi deve essere breve, appuntita, affilata, precisa. Non credi che la tua comunicazione sia davvero adatta al web? Che rapporto hai col mondo della tecnologia?
«Oggi, parlando con voi, mi è venuto in mente un aforisma: "Chi crede di essere arrivato, si è fermato". Questo può essere un tweet, ad esempio. La forza di queste frasi è che non vanno spiegate: arrivano al cuore e alla mente senza mediazioni. Arrivano come pugnalate, sberle o carezze.
In questo momento l’aforisma è la poesia che preferisco. A volte i miei alunni scrivono tre pagine… e invece due parole devono essere precise, affilate, raggiungere il cuore. La comunicazione digitale può avere una virtuosità.
L’importante è che la sintesi non sia talmente estrema da annullare il messaggio. Come nel caso delle sigle: i ragazzi usano TVB, ma TVB non è affatto come dire "ti voglio bene"».
Preferisci ricevere un TVB o un cuore?
«Un cuore. Ma preferisco un "ti
voglio bene"».
A proposito di giovani, hai fatto una proposta per la scuola…
«Io vorrei che si desse una chitarra a ogni ragazzino. Far sentire le belle canzoni è come imparare la poesia.
E se non solo ascolti, ma partecipi attivamente, se suoni, allora sarà splendido. È così, ad esempio, che preservi i giovani dai pericoli: facendoli esprimere in maniera creativa e così ampliare i discorsi, la mente, l’anima. Non capisco come nelle scuole si insegni tutto tranne la materia più importante: la vita. È possibile trasferire il succo dell’esperienza di tanti uomini su alcuni princìpi che sono inoppugnabili. Perché non si insegna chiaramente che l’invidia è un sentimento che porta fatalmente all’infelicità dell’uomo che lo prova? Perché non si insegna che il gioire delle vittorie degli altri è l’unico modo per essere costantemente felici?».
Come hai vissuto il Covid-19?
«Io l’ho vissuto come tutti quelli che vivono in casa. Ma avendo la fortuna di avere un ettaro di terreno, l’ho vissuto facendo ginnastica, facendo passeggiate e aiutato dalla Tv di 85 pollici».
Hai la percezione della morte?
«La gente fugge spesso il pensiero della morte. Io la vedo come un confine, e penso che sia giusto prepararsi a questo momento senza nascondersi. Mi pongo in modo positivo nei suoi confronti.
Questo è anche dovuto al fatto che ho sempre vissuto la vita e il creato come qualcosa di rassicurante. Il nostro sguardo non può abbracciare la totalità, e dobbiamo accettare che non ci è possibile capire, ma solo intuire. Così è per la morte. Ne ho parlato in alcune canzoni. Ad esempio, in Dormi amore,una delle canzoni a cui sono più legato in assoluto, che ho dedicato a mia moglie Daniela. È la dichiarazione d’amore di un uomo che si preoccupa di cosa accadrà alla sua donna dopo che lui sarà morto. Le promette di non abbandonarla, di rimanere sempre con lei, anche se in forma diversa: "Con l’aiuto dei gabbiani disegnerò / Impossibili figure / Che potrai interpretare. / Dormi amore / Non ti svegliare / No, non temere / Con altre mani ti accarezzerò / Io ci sarò. / Ovunque tu sarai / Il mio respiro sentirai"».
Nella tua vita hai avuto gravi problemi di salute. In quei momenti hai sentito di aver avuto una fede più forte?
«La fede mi ha dato una forza maggiore nell’accettare il mio destino. Nella mia malattia ero sereno. L’accettazione è stata fondamentale. Per me vale come o più di una preghiera: è essa stessa una forma di preghiera, perché è la fede vissuta profondamente. Mi ricordo che durante una coronarografia ho sentito che i medici dicevano: "Non possiamo farlo. La malattia è troppo estesa".
Eppure io ero calmo e sono rimasto calmo. Alla fine però un medico mi ha detto: "Ti operiamo, e andrà tutto bene". Avevo profondamente accettato il mio destino. Sento che è importante raccontare questa cosa alla gente».
Ma davvero qualunque destino lo avresti accettato?
«Sì, e spero di avere la forza di farlo sempre, qualunque situazione io viva: accettare la vita».
È un merito? Una forza?
«No. È una capacità. È aver capito qualcosa di molto profondo.
Nell’accettazione c’è la forza di accogliere il destino e di farlo sorretti dalla fede. Mi viene l’immagine di un fuscello nel vento. E il fuscello nel vento ondeggia nell’aria, però dolcemente, così come l’uomo che accetta questo destino è disponibile a quello che accade con serenità. Ho interpretato questa accettazione profonda come una forza che mi è arrivata dall’esterno. Come se avessi ricevuto un dono rassicurante, una grazia. Non credo di poterlo spiegare meglio».
Uno dei tuoi aforismi recita: "Senza Dio siamo al centro del nulla". Qual è il tuo rapporto con Dio?
«La fede per me è davvero una grande consolazione. Con il passare del tempo il mio rapporto con la religione è diventato più profondo. Oggi ho una maggiore coscienza del rapporto con Dio rispetto al passato grazie a mia moglie Daniela, che mi ha aiutato a riscoprire la dimensione intima e quotidiana della preghiera e alle esperienze in alcuni luoghi sacri».
Quali?
«Il Sinai. Nel 1997 andammo al monastero ortodosso di Santa Caterina. Un luogo affascinante: solo dune, terre nude, il cielo e l’uomo. Andammo verso il deserto, dove abitava una suora che viveva da sola in una casa circondata da un muretto con un piccolo giardino e un roseto che innaffiava tutti i giorni. All’entrata c’era una tettoia sotto la quale viveva una famiglia beduina. Le chiesi: "Come mai ha deciso di versare il suo amore nel deserto?". Lei mi rispose: "No, non è stato versato". Non era andato perduto nel nulla, no. Allora le domandai se, secondo lei, Dio avesse bisogno di noi, e lei mi rispose di sì, che lui aveva bisogno di noi quanto noi di lui».