Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 09 Sabato calendario

QQAN70 Su "Il viaggio di Veronica" di Ferdinando Scianna (Utet)

QQAN70

Amerigo Ormea è al seggio elettorale allestito dentro il Cottolengo di Torino. Gli elettori consegnano allo scrutatore le loro carte d’identità per il riconoscimento e Ormea le osserva curioso. Arriva un gruppo di suore. I loro ritratti realizzati davanti all’occhio di vetro sembrano perfetti; non manifestano le sembianze tese, nevrotiche e innaturali di tutti gli altri: sembrano dimentiche di sé, come se avessero raggiunto la beatitudine. Possibile?, si chiede il protagonista di Una giornata di uno scrutatore di Italo Calvino.
Il ritratto fotografico, scattato da un ignoto fotografo di paese, per essere incollato sul passaporto o carta personale, oppure realizzato da un famoso autore, è uno degli ambiti più problematici di questa pratica, come è scritto in tutti i libri di storia della fotografia. Del resto, a quasi duecento anni dalla sua invenzione, questa attività resta ancora carica di ambiguità e di problemi, e il ritratto più di ogni altro genere tra quelli prodotti dalle macchine analogiche e ora digitali.
Ferdinando Scianna, uno dei più importanti e significativi fotografi italiani, si è cimentato con questo tema e ha scritto un libro, Il viaggio di Veronica ( Utet) in cui ci presenta la sua personale storia del ritratto. Il libro muove dalle origini, dalla fotografia prima della fotografia, e poi da Daguerre, Fox Talbot e Niépce, sino ad arrivare all’oggi. Ci racconta con il tono affabulante che Scianna possiede lo sviluppo di questo genere, inanellando varie questioni che il ritratto presenta: estetiche, culturali, ideologiche, sociologiche, psicologiche.
Ciò che muove l’interesse di Scianna, uomo che scatta immagini, è ovviamente la passione che nutre per i ritratti fotografici, i suoi e quelli degli altri, per cui la sua storia è strettamente legata alla sua natura d’autore e di uomo curioso. Qual è il segreto di un buon ritratto? L’empatia con l’altro e con gli altri, risponde Scianna: alla capacità di riconoscersi nel volto e nella vita di un’altra persona come in uno specchio. L’autore è convinto che non tutte le foto di persona siano dei ritratti e per spiegarlo cita una frase di Mario Praz: «La fotografia ce la può dire lunga sulla persona ritratta, ma una cosa è certa: che non meno di una pittura ce la dice lunga sul fotografo. E come potrebbe essere diversamente? La macchina è uno strumento che registra sì, ma dopo un’adattazione umana, dopo un delicato aggiustare della visuale, previo giudizio del fotografo. E qui sta il nocciolo della questione».
Il ritratto è dunque sempre una sorta di autoritratto? E la questione dell’empatia? Come s’accorda questa con il fatto che la fotografia è sempre un’istantanea, e i ritratti degli istanti di volti? Per capire cosa sia per Scianna un ritratto fotografico bisogna andare alle pagine che dedica al suo maestro, Henri Cartier- Bresson, da lui considerato non a torto uno dei più grandi fotografi d’ogni tempo.
Trascrivendo un’intervista che gli ha fatto nel 1983, riporta una frase di chi è considerato ancora oggi il teorico del fotografo “testimone invisibile": «il ritratto è il contrario dell’immagine presa à la sauvette, di nascosto». Per scattare un buon ritratto, dice, bisogna chiedere udienza e ottenerla, poi raggiungere una sintonia con la persona fotografata, fino alla connivenza. Inoltre ci vuole una reciproca disponibilità, e per questo resta l’impresa più difficile che ci sia. Scianna aggiunge che questo è vero, ma per raggiungere un buon risultato resta pur sempre necessaria la folgorazione dell’istantedecisivo. Per spiegarlo ci mostra uno dei più bei ritratti di Cartier- Bresson, quello di Irène e Frédéric Joliot- Curie ( 1945), premi Nobel per la chimica. Appena aperta la porta di casa Cartier- Bresson se li trova davanti e scatta. Sono sorpresi, imbarazzati, quasi risentiti. Il punctum della foto sono le loro mani, che entrambi stringono davanti a sé nervosamente. Entrato in casa il fotografo fa altri scatti, per educazione e per abitudine, in cuor suo è sicuro che la foto giusta sia la prima, quella all’ingresso. Dove è allora l’empatia? Di certo non la dimostrano i due coniugi Joliot- Curie. Un’altra volta interrogato da Simone de Beauvoir su quanto tempo serve per fare un ritratto, ha risposto: «Un po’ più che dal dentista ma certo meno che dello psicoanalista».
Una misura non breve, perché nessuno si siede per un istante sulla poltrona del primo, e su quella del secondo spesso ci si rimane per anni. E allora? La risposta non c’è. L’empatia, che serve per capire cosa passa per la testa di un altro, non ha una misura esatta: basta un tempo fulmineo oppure uno molto più lungo. Forse non esiste neppure una formula per dire cosa sia un buon ritratto o per dire come lo si ottenga.
Tanto, se non tutto, come dimostra questo libro, sta nell’occhio dell’osservatore, ammesso che l’occhio del fotografo sia stato capace di fare un buon lavoro. Si tratta della forza dell’interpretazione, che si serve di parole. Un buon ritratto è come una poesia, genere ambiguo per sua definizione. Ci vuole chi la scriva, ma ci vuole anche chi la legga e soprattutto chi la capisca. A suo modo, naturalmente, come capita a Ormea- Calvino in quel seggio elettorale.