Robinson, 9 gennaio 2021
1QQAN40 Su "Flashover Incendio a Venezia" di Giorgio Falco (Einaudi)
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Quando il giornalismo incontra la letteratura quasi sempre si infioretta di belle frasi, aggettivi decorativi, metafore suggestive, facendo così solo” cattiva letteratura”. Giorgio Falco in Flashover. Incendio a Venezia (Einaudi, fotografie di Sabrina Ragucci) dimostra invece – a parte qualche sbavatura liricheggiante – di rinunciare al colore e a preziosismi stilistici. Qui la letteratura, nella ricostruzione meticolosa di un fatto di cronaca ( l’incendio della Fenice a Venezia), si traduce in una prosa antiromanzesca, tesa e quasi dispersa nelle proprie macerie come il teatro andato a fuoco, soprattutto scandita da un ritmo percussivo omologo al ritmo inesorabile dell’esistenza contemporanea. Il flashover (incendio generalizzato) è l’incendio di «una civiltà già defunta, che muore ogni volta fingendo di rinascere solo per continuare a morire meglio». L’inizio è spiazzante: un giovane imprenditore va ad acquistare una Bmw, che costa 36 stipendi di un operaio, indebitandosi ulteriormente: «acquistare un’auto nuova significa comprare anche la fugacità dell’odore che dura poche settimane» (quell’inebriante odore artificiale di nuovo delle auto). Ed è proprio lui, Enrico Carella, il” cugino padrone” devoto ai consumi e alla bella vita, ad aver prima preso in subappalto i lavori elettrici del teatro ( senza gara!), poi trovandosi in grave ritardo sui tempi, e dovendo pagare una penale, ad aver architettato l’incendio doloso (insieme al” cugino dipendente"). Per la cronaca, la penale sarebbe stata di 15 milioni di lire, i danni dell’incendio assommano a 100 miliardi! D’altra parte sottrarsi al pagamento della penale è non avere educazione alla sconfitta.
Il resoconto dell’evento – «una delle più grandi performance del Novecento» – è accuratissimo. Un antecedente letterario è L’erede di Gianfranco Bettin, inchiesta narrativa su Pietro Maso, che uccise i genitori per possedere subito le merci agognate. Questa concentrazione sui fatti disciplina lo stile dell’autore – nei romanzi invece incline a esibire la propria sapienza retorica —, lo costringe a una “responsabilità” nei confronti del lettore. Innumerevoli le digressioni: una analogia tra Carella e il protagonista di un romanzo di Mishima, entrambi odiatori di una bellezza che sembra escluderli; un coté da romanzo civile, l’indignazione verso strade e piazze d’Italia intitolate ad Almirante, indirettamente implicato col suo partito in una strage neofascista e prosciolto per immunità parlamentare; un trattatello di critica dell’economia politica (il Capitale, il Desiderio...); pagine virtuosistiche come i “tre minuti” in cui annega un bambino in una piscina pubblica sotto gli occhi distratti di tutti ( tre minuti è la durata media di una canzone rock, di un matrimonio in Kuwait, di una conferenza stampa di Mourinho, il tempo medio di molti rapporti sessuali in Italia...); alcune notazioni apparentemente secondarie ma che rivelano fenomeni antropologici carsici, come l’avvento del riscaldamento autonomo (non più condominiale) come sintomo della dissoluzione della comunità, o l’idea di bruciare una finta Fenice in una delle tante finte Venezie (in un mondo di copie anche l’apocalisse può ridursi a simulazione). Inoltre il racconto dei personaggi, entro una affabulazione popolare e pettegola, da” cronaca vera” ( le due fidanzate, manipolate, del protagonista) è punteggiata da frasi di tono aforistico e leggende metropolitane.
Solo a tratti lo slancio lirico- visionario squilibra un poco la pagina ( «Ogni fiamma è una parola e compone il linguaggio del fuoco...» ), quando la ruminazione filosofica aspira in modo esplicito al poema in prosa. Le pagine sulla maschera sono un saggio a sé. Ispirate dalle foto di Sabrina Ragucci, che costellano il racconto: foto per niente decorative, ne costituiscono invece la sintassi visiva. Maschere enigmatiche e sorridenti, indossate dai due autori ( perché l’Italia è la nazione tragica che ride di se stessa). Il commento di Falco non è sempre di limpida decifrazione. Ma la sua intuizione centrale ci invita comunque a considerare la maschera,” superficie dell’essere umano”, come espressione paradossale di autenticità e libertà: «libera il volto dalla falsa personalità, dalle contrazioni abituali, dalle boccacce involontarie, dall’esigenza di nascondersi».
Da un lato rinvia alla astrazione del denaro, che tutti omologa, dall’altro protegge la nostra interiorità ( oggi l’obbligo delle mascherine ne è beffarda realizzazione).
Però da sola la maschera non basta: per diventare “volto” occorre da parte di chi ci guarda uno sforzo supplementare di immaginazione morale, e anche la memoria di una comunità perduta.