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 2021  gennaio 09 Sabato calendario

I 45 anni di Repubblica e il riformismo di marca Fiat

“Quando infine misi in atto quel progetto mi domandai che cosa sarebbe stato di quei luoghi e della gente che li abitava nel momento in cui li avessi lasciati”
(da Il labirinto di Eugenio Scalfari, Rizzoli, 1998)
 
Ha poco da festeggiare un giornale che nei suoi primi quarant’anni di vita ha avuto due direttori e nell’ultimo quinquennio ne ha avuti addirittura tre. Parliamo, rispettivamente, della Repubblica diretta da Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro e di “Stampubblica” diretta, nell’ordine, da Mario Calabresi, Carlo Verdelli e ora da Maurizio Molinari. Il prossimo 14 gennaio il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 intende celebrare il suo 45° compleanno, ma si tratta di un anniversario intermedio, a metà fra i quaranta e i cinquanta, evocato come un esorcismo alla ricerca di una memoria e di un’identità perdute. E per di più, in coincidenza con l’annuncio di un’altra uscita eccellente, come quella dello scrittore Roberto Saviano, l’autore di Gomorra.
Il passaggio fra i primi due direttori e gli ultimi tre ha segnato in realtà una frattura nella storia di quel giornale, provocata dal duplice cambio di proprietà: prima Carlo De Benedetti e poi la Fiat di Elkann-Agnelli, attraverso la maxi-fusione nel gruppo Gedi. Due padroni diversi, con origini e orientamenti diversi, accomunati però dal vizio oggettivo di non essere “editori puri” – cioè, senza interessi estranei da difendere – di una testata che all’origine aveva il crisma del Gruppo L’Espresso e della vecchia Mondadori. Fino a quando Carlo Caracciolo e lo stesso Scalfari sono rimasti al vertice, sono stati una garanzia per i loro giornalisti e i loro lettori; poi la situazione è andata progressivamente degenerando.
Non sorprende, perciò, che in occasione di questo 45° anniversario dimezzato, Repubblica vada alla ricerca della memoria perduta e si appelli alla figura patriarcale del Fondatore, prossimo ai 97 anni d’età, nel tentativo di ritrovare le proprie radici. Sorprende e colpisce, invece, l’infelice gaffe in cui l’attuale direttore ha coinvolto maldestramente l’illustre capostipite. In un lungo colloquio di tre pagine sul riformismo come “filo conduttore della storia nazionale”, pubblicato il 2 gennaio, Molinari è riuscito a far dire a Scalfari che “Berlinguer era morto” prima di Aldo Moro, rimuovendo poi il macroscopico errore nella seconda edizione del giornale.
Sappiamo bene, per esperienza, che nel nostro mestiere la fretta può indurre a commettere imprecisioni o inesattezze. Ma qui si tratta di due snodi storici della vita politica italiana, con al centro due personaggi collocati dall’intervistato nel loro giusto contesto. Ma anche ammesso e non concesso che il Fondatore avesse confuso due vicende, di cui è stato testimone e protagonista, qualsiasi intervistatore sarebbe dovuto saltare subito sulla sedia mentre registrava il dialogo o successivamente sulla poltrona mentre lo trascriveva sul computer. Evidentemente, la consuetudine di Molinari con la politica estera – quella che recentemente ha costretto anche una “grande firma” come Bernardo Valli a lasciare il giornale – gli ha offuscato nell’occasione la memoria e le idee.
Quanto all’identità, dopo le polemiche che avevano portato alle dimissioni del comitato di redazione, la direzione ha deciso che quando si scrive di Exor o Fca (ex Fiat), e magari ora anche di Stellantis, bisognerà dichiarare al lettore che si tratta di una finanziaria o di un gruppo industriale collegati a Gedi, e quindi alla proprietà che oggi controlla il quotidiano fondato da Scalfari. Per l’appunto. Ma più che una regola di trasparenza, nel nostro caso sembra una “regola d’ingaggio” per precostituirsi un alibi e salvarsi l’anima. Questo è il “riformismo” di marca Fiat.