Robinson, 9 gennaio 2021
I 45 anni di Repubblica raccontati da Scalfari
La sera del 13 gennaio del 1976, alla bocca d’uscita d’una piccola rotativa Goss, nello stabilimento della Stec di piazza Indipendenza a Roma, il primo numero di Repubblica vide la luce. Contemporaneamente la stessa operazione aveva luogo nel centro stampa milanese della Sage, a Paderno Dugnano. A tenere a battesimo il nuovo giornale c’erano, intorno a quella rotativa semiartigianale, Giorgio Mondadori e Mario Formenton in rappresentanza dell’azionista Mondadori, e Carlo Caracciolo, Gianfranco Alessandrini e Lio Rubini in rappresentanza dell’azionista L’Espresso. Al quarto piano del palazzo aspettava la redazione: una quarantina di giovani che avevamo selezionato nei due mesi precedenti e le poche firme che avevano condiviso con me le ansie e le speranze di quel progetto. Fin dal primo momento ebbi come colleghi preziosi Sandro Viola e Mario Pirani, cui si unirono ben presto Gianni Rocca, Giorgio Bocca e Fausto De Luca. Questo fu il nucleo iniziale a cui si sarebbero aggiunti altri amici. Il grosso era fatto di ragazzi alle prime armi e perciò molto determinati a mordere la mela della vita, a farsi strada con le proprie capacità e affidandosi a un progetto condiviso.
Se debbo dire quale fosse il principale tratto di quel seme, ebbene era proprio questo: un progetto condiviso al quale partecipare. Non accade altrettanto negli altri giornali? No, salvo in quelli di assai piccole dimensioni dove il lavoro è artigianale e il “maestro” di quella bottega è in grado di seguirlo personalmente in tutte le sue fasi. Ebbene noi di Repubblica continuammo a lavorare in quel modo nonostante che i redattori fossero arrivati a quattrocento già al decimo anno di vita, i centri stampa a sette, le edizioni locali a otto, i collaboratori a poco meno di un migliaio, gli impiegati poligrafici a oltre cinquecento.
Lavorare da artigiani in una delle principali imprese editoriali del Paese può essere dura. Non si sarebbe potuto fare senza quel progetto condiviso, capace di tenere insieme persone diverse, molte delle quali con rilevante personalità.
Per quel primo numero tirammo 300 mila copie e le vendemmo tutte, perché l’attesa del pubblico era grande. Le rotative di Roma e Milano cominciarono a girare alle 23 e finirono alle 6 del mattino. Amedeo Massari, che fu il primo nostro direttore amministrativo, scese in piazza con le prime copie fresche di stampa e le vendette ai passanti insieme a Mario Formenton.
***
La decisione di fondare un quotidiano nazionale io me la portavo dentro fin dal 1954, quando lo proponemmo ad Adriano Olivetti. Poi ripiegammo sul settimanale, ma la voglia m’era rimasta dentro e aveva contagiato anche Carlo Caracciolo. Perciò quando l’Espresso nel nuovo formato cominciò a produrre lauti profitti, la tentazione di investirli in un quotidiano riemerse.
Il giornale che avevo in mente avrebbe dovuto avere un arco di lettura nazionale, con una distribuzione relativamente uniforme su tutto il territorio, a somiglianza dei settimanali. Poco sport, nessuna cronaca locale, niente piccoli annunzi economici, niente necrologi. Politica interna ed estera; cultura, spettacolo, economia: questi gli ingredienti basilari della struttura. Formato piccolo, ma non tabloid: qualcosa che fosse simile al formato di Le Monde. Abolita, naturalmente, la tradizionale terza pagina; la cultura collocata nel paginone centrale, quasi a dividere in due – con una zona di riposo e conforto intellettuale – la grande attualità politica collocata nella prima metà del fascicolo e la grande attualità economico-finanziaria che doveva riaprire con apposita testata l’ultima parte del menabò. Gli articoli di commento dovevano essere tolti dalla prima pagina, salvo rare eccezioni, e collocati in una pagina interna di sinistra, secondo l’uso dei giornali anglosassoni.
Avevo molta fiducia in una formula così disegnata, per tanti aspetti innovativa rispetto al resto della stampa nazionale. Ma mi assalivano ondate d’ansia al pensiero delle difficoltà cui saremmo andati incontro. Ero convinto che la scommessa non sarebbe stata mai vinta se avessimo puntato sulla dovizia dei mezzi, mettendoci sullo stesso terreno di gioco dei nostri concorrenti. Per dare” la scalata al cielo” non servivano le scale, ma l’indipendenza e l’immaginazione. Dell’uno e dell’altra mi sentivo abbastanza sicuro e questo pensiero m confortava e mi spingeva.
Altre considerazioni sorreggevano la mia fiducia. La prima riguardava il pubblico giovane, che era desideroso di riconoscersi in un suo quotidiano e non lo trovava sul mercato. La seconda concerneva il pubblico femminile, che si trovava in analoghe condizioni. Sia i giovani che le donne erano molto cambiati dal Sessantotto in poi, ma i quotidiani non sembravano rendersene conto. La terza considerazione riguardava il “popolo comunista”. I simpatizzanti e i militanti del Pci avevano il loro giornale di partito, ma i mutamenti in corso nella società rendevano quella sola lettura sempre più insufficiente. E risultava chiaro dai sondaggi d’opinione che molti di loro erano disponibili ad acquistare, oltre all’Unità, un secondo giornale. Quel secondo giornale, tuttavia, era di solito fortemente ostile al Pci. Perfino il Corriere di Ottone, che aveva osato guardare ai comunisti come a una forza politica come le altre, non faceva il minimo sforzo per capire dal di dentro i problemi, le attese, le difficoltà di quel settore che pure rappresentava da un quarto a un terzo della società nazionale.
Gli ostacoli che mi si paravano di fronte erano dunque bilanciati da alcuni elementi assai positivi. Indipendenza editoriale; una vera dote su cui ero certo di poter contare, e cioè quella struttura d’opinione liberal che s’era formata a partire dal Mondo e s’era allargata in vent’anni di Espresso; tre settori di pubblico poco o niente frequentati dai concorrenti, e cioè giovani, donne, comunisti; infine una formula giornalistica del tutto diversa da quelle tradizionali. Con queste armi nella bisaccia partimmo per la guerra più divertente che mi sia accaduto di affrontare nella vita.
***
Nel luglio del 1975, nella villa di Sommacampagna di Giorgio Mondadori, in una notte di temporale estivo cui seguirono le stelle, firmammo l’atto di costituzione della società editrice. Era un sabato, la domenica andammo tutti ad ascoltare l’Aida all’Arena di Verona. Così cominciò quella bellissima avventura.
***
Si sono scritti libri e svolti seminari sul fenomeno Repubblica: un giornale apparso in un mercato già saturo e in un momento di crisi grave dell’editoria giornalistica, avendo di fronte concorrenti fortissimi con un secolo e oltre di vita e d’esperienza. Io posso assicurare che la causa del successo è stata questa: un prodotto pensato fin dall’inizio per svolgere un ruolo pagante in termini di indipendenza economica e, reciprocamente, un’indipendenza economica che ha reso possibile svolgere quel ruolo. La struttura dell’azienda e la natura della sua proprietà editoriale ne hanno fatto una piccola roccaforte imprendibile ai tentativi di penetrazione e d’inquinamento dall’esterno. Repubblica è stata per conseguenza il solo tra i grandi giornali d’informazione a poter utilizzare fino in fondo il suo ruolo di contropotere, senza dovere soggiacere a sudditanze, ad affiliazioni e a padrinaggi. Le scelte politiche che di volta in volta il giornale ha fatto e le temporanee alleanze con questa o quella forza politica sono state sempre scelte autonome, non condizionate da interessi extra- giornalistici o extra- editoriali. Fin da principio Repubblica ha goduto d’una franchigia e dunque d’una imprevedibilità di gioco che ha consentito di realizzare entro breve tempo un successo rilevante di prestigio e di vendite, quindi di arrivare al traguardo dell’autosufficienza finanziaria, quindi di disporre dei mezzi necessari per affrontare la concorrenza con larghezza di risorse, quindi di poter attrarre i professionisti più valenti, quindi di potersi arrogare un compito di alto magistero morale, infine di porsi sempre più come voce e punto di riferimento d’una struttura di opinione autonoma rispetto ai partiti e alle lobbies dominanti.
***
Il nostro è stato un giornale diverso dagli altri perché nacque dalla costola dell’Espresso che a sua volta era nato da una costola del Mondo. Chi dimentica questa sequenza omette un tratto fondamentale che ha fatto diRepubblica l’anello d’una catena con un’appartenenza a un gruppo. Nel corso degli anni, nel variare dei fatti e delle persone, i risultati e i frutti sono stati diversi, però la radice veniva da lontano. E quella radice fu piantata da un gruppo di giornalisti professionisti provvisti di uno spessore culturale definito. Questo spiega perché, oltre a essere un giornale di informazione, il nostro fu fin dall’inizio un giornale di intervento. Quindi testimonianza, certo. Ma testimonianza intesa non solo come registrazione, ma come intervento attivo nelle cose.
Il fatto che rende questa storia molto singolare è che una tensione ideale in origine fortemente minoritaria ed elitaria sia arrivata a conquistare – grazie a Repubblica — i primissimi posti nella classifica delle vendite dei giornali: questo ha un suo rilievo industriale e commerciale, ma ha anche un suo rilievo politico. Evidentemente alle spalle di tutto questo c’era un progetto editoriale, giornalistico e civile, il quale consisteva nel raccogliere intorno ad alcuni temi essenziali – etica pubblica, innovazione e modernizzazione – il sentire e il fare della parte migliore della classe dirigente ed emergente del Paese.
Questo giornale è stato anche una scuola. Una scuola professionale e, quello che più mi sta a cuore, una scuola morale, e uno stile.
[I brani sono tratti da La sera andavamo in via Veneto (Einaudi), Racconto autobiografico (Einaudi), dal saluto alla redazione alla fine della direzione, il 2 maggio del 1996, e dallo scritto introduttivo del Libro dei trent’anni edito da la Repubblica]