la Repubblica, 9 gennaio 2021
E Catalina la ribelle si fece uomo
Un quadro non deve essere necessariamente un capolavoro, per risultare eccezionale: perché eccezionale può essere la storia che trattiene. È il caso di questa effigie di Catalina de Erauso, che si conserva a San Sebastián, nella Spagna basca, alla Fondazione Kutxa. A prima vista (e anche a seconda) può sembrare un uomo: ma questo fu il segreto di Catalina, prima che lo svelasse divenendo una delle donne più celebri di Spagna e d’Europa.
La sua vicenda la narra lei stessa in un manoscritto composto nel 1625-26, che inizia così: «Io, donna Catalina de Erauso, nacqui a San Sebastián nell’anno 1585, figlia del capitano don Miguel de Erauso e di donna María Pérez de Galarraga y Arce. Nel 1589 mi rinchiusero nel vicino convento di San Sebastián el Antiguo, con mia zia donna Ursula de Unzá y Sarasti, cugina prima di mia madre e priora del monastero, nel quale fui allevata fino ai quindici anni, quando si decise del mio avvenire». Il suo avvenire era ovviamente la monacazione, ma poco prima che si realizzasse – a seguito di una zuffa con una monaca – decide che non fa per lei, ruba le chiavi e scappa. Tagliati i capelli e aggiustati i vestiti, comincia un girovagare che la porta da Bilbao, a Estella, a Siviglia, fino all’America del sud. Ovunque si trovi, fioccano risse, duelli e omicidi, da cui si salva rifugiandosi in chiese e monasteri, spesso con l’aiuto di protettori di origine basca. Fa il paggio, il mozzo, ma soprattutto l’agente di mercanti che si fidano di lei perché bravissima nella gestione degli affari. Tutti la reputano un castrato e a volte ne approfitta, come quando il suo capo la caccia perché la scopre mentre amoreggia in casa con due sorelle della moglie. Si arruola come soldato e in Cile incontra suo fratello Miguel, che – non riconoscendola – le parla della prediletta sorella Catalina. Finirà per uccidere anche lui, a duello, inconsapevolmente. In una battaglia all’ultimo sangue recupera il vessillo finito in mani nemiche e da quel momento diventa “alfiere”. Ogni tanto le sembra di trovare pace, ma in realtà il destino la insegue con la falce. Lei fugge, fugge, fugge. Una volta si perde nel deserto insieme ad altri disperati, «decisi a morire piuttosto che farci catturare vivi». Dopo essersi divorati i cavalli, stremati e assiderati, vagano fino a quando incontrano due uomini appoggiati a una roccia, che interrogano: ma «erano morti, congelati con le bocche aperte come se ridessero». Si salva, trova varie ospitalità e potrebbe pure accasarsi: quando però le propongono di sposare una tizia, se la svigna perché la trova «brutta come il diavolo, tutto l’opposto dei miei gusti, che erano sempre stati per i bei visini». Finché un giorno – dopo ulteriori peripezie tra La Plata, Charcas, Piscobamba e Cochabamba – interrogata dal vescovo di Guamanga, rivela tutto: «… trafficai, uccisi, percossi, imbrogliai, terrorizzai fino a venire qui davanti ai piedi di Vostra Signoria Illustrissima». Il prelato le crede, supera una visita ginecologica che la riscontra vergine e da quel momento Catalina comincia la sua seconda vita, che la conduce al cospetto del re di Spagna (dal quale riceve un vitalizio di 800 scudi e il titolo di “alfiere donna Catalina de Erauso”) e di papa Urbano VIII, che le concede «il permesso di continuare la mia vita vestita da uomo» (ma con la raccomandazione che la smettesse di ammazzare la gente). L’autobiografia è sospesa al luglio del 1626, quando – a Napoli – minaccia di percosse due dame che l’avevano riconosciuta (“puttanelle”).
Il manoscritto resta tale fino al 1829, quando viene stampato a Parigi; l’anno seguente appare in francese e in tedesco. Una bella edizione italiana è quella di Sellerio del 1991. La veridicità della sua vicenda è attestata da numerosi documenti rintracciati negli archivi, grazie ai quali si sa anche quel che le accadde in seguito. Tornò in Messico a trafficare, facendosi chiamare Antonio de Erauso, e morì nel 1650, poco dopo essersi innamorata di una promessa sposa e aver (invano) sfidato a duello il di lei futuro marito. La sua vicenda dà corpo alla rabbia gridata dai conventi da molte donne monacate a forza. Alcune reagirono con gli strumenti dell’arte (si pensi alle pittrici Plautilla Nelli e Maddalena Caccia, o a Isabella Piccini, la più prolifica degli incisori veneziani del XVII secolo), altre con parole e ragionamenti: come Arcangela Tarabotti, che pubblicò testi inequivocabilmente protofemministi quali la Tirannia paterna e l’ Inferno monacale. Ovvio che la ribellione di Catalina è oggi rivalutata in ottica LGBT e il suo ritratto alla Fondazione Kutxa – riscoperto non da molto – nel 2017 è stato presentato a una mostra madrilena intitolata “Trans. Diversidad de identidades y roles de género”. Nella tela la figlia del capitano de Erauso appare a mezzo busto, vestita da militare, con un’espressione intensa e quasi corrucciata. In alto scorre un’iscrizione che la identifica, ne dichiara l’età e precisa la data esecutiva (1630). L’autore è stato riconosciuto in Juan van der Hamen, ma è lecito credere che non lo eseguì dal vero, bensì sulla base di un modello perduto. Sappiamo infatti che fu effigiata anche da Francisco Pacheco, seguace di El Greco e maestro di Velázquez. Per fortuna rimane quell’iscrizione. Se non ci fosse stata, o fosse stata abrasa, il quadro sarebbe stato giudicato solo per la notorietà dell’artefice, la qualità dell’esecuzione e la piacevolezza del soggetto: che qui mancano. Quel che non manca, però, è la registrazione realistica dei lineamenti e dell’orgoglio di Catalina/Antonio. Come ogni ritratto – bello o brutto – è una sfida al tempo, che corrode i corpi ma non la memoria delle persone.