la Repubblica, 9 gennaio 2021
Il virus mutato in Veneto
Si può ancora parlare di modello Veneto? Nel giorno della resa cromatica della Regione guidata dal leghista Zaia, che da gialla diventa arancione per ordinanza ministeriale, la domanda è lecita. E la risposta è aperta. Non foss’altro per quel rosario di cifre e indicatori che ha convinto alla stretta: 2.549 ricoverati con sintomi Covid, 357 in terapia intensiva, l’incidenza schizzata nelle ultime due settimane a 927 positivi ogni 100 mila abitanti (la media nazionale è 313), l’indice Rt che sfiora l’1, l’aumento record dei decessi arrivati a 7.263 (erano 2.075 a luglio). «Alla luce di tutto ciò – scrivono gli esperti del governo – le attuali misure non hanno avuto l’impatto desiderato nel ridurre a sufficienza il contagio. Si raccomanda l’adozione in modo tempestivo di misure di mitigazione successive e più restrittive». Dunque, zona arancione.
L’indicatore che preoccupa
«Come la penso? Che noi stiamo pagando la nostra virtuosità...». Luciano Flor, direttore generale della Sanità veneta, scorre con gli occhi le tabelle dei numeri e scuote la testa. Non si abbandona all’autocommiserazione e rigetta le critiche di chi – come la locale dirigenza del Partito democratico – parla di ospedali al collasso e di scelte politiche miopi. «Il nostro sistema regge. Nelle terapie intensive abbiamo 76 posti liberi su una capienza di 700 letti, che possiamo ampliare fino a mille nell’arco di 24 ore. L’incidenza è così alta solo perché noi il virus lo andiamo a cercare, a differenza degli altri». Tamponi a tappeto è da sempre il pilastro del modello veneto. Ieri ne hanno fatti 17 mila molecolari e 30 mila del tipo antigentici, quelli rapidi non conteggiati nelle statistiche del ministero. «Solo la Lombardia ne ha fatti di più, circa 18 mila, ma ha più del doppio della popolazione rispetto a noi», ribadisce Flor. Va anche detto che sul rilievo dei contagiati influisce non poco la scelta di affidarsi all’uso intensivo dei test rapidi per lo screening degli asintomatici: un quarto dei molecolari, infatti, viene fatto per confermare positività rilevate con gli antigenici.
E tuttavia, a testimoniare che la seconda ondata ha investito il Veneto in modo più violento e diffuso della prima non è tanto il numero di pazienti in terapia intensiva (357 ieri, 356 al picco del primo aprile scorso) quanto i contagiati ricoverati negli altri reparti: oggi, come detto, sono 2.549, il 30 per cento in più del massimo raggiunto in primavera. Sono malati, hanno sviluppato sintomi gravi ma non al punto di essere intubati. I malati non mentono. Quel numero non si presta a interpretazione. «È il dato che più ci preoccupa», ammette il dottor Flor. «Negli ultimi giorni sta diminuendo, con cautela possiamo essere un po’ ottimisti». Nell’indagarne le cause, Flor individua un arco di tempo di trenta giorni, dal 20 ottobre al 20 novembre, in cui la curva del contagio si è impennata. Cos’è successo in quelle quattro settimane?
Le 8 mutazioni del virus
Analizzando centinaia di campioni, i genetisti hanno sequenziato in Veneto otto mutazioni del virus. Il ceppo primaverile pare scomparso, così come quello estivo, rintracciato per la prima volta nella caserma “Serena” di Treviso in uno dei migranti ospiti, poco prima di essere sottoposto a un’operazione chirurgica. Delle otto mutazioni, cinque sono comuni al resto d’Italia, due di entità minore sono “autoctone”, una è la famigerata variante inglese. «Nei nostri aeroporti avevamo dieci voli al giorno da e per l’Inghilterra», osservano i responsabili della prevenzione sanitaria. «Treviso è stato il primo hub nazionale della Ryanair». Dopo che il 20 dicembre scorso all’ospedale militare del Celio hanno scoperto il Paziente 1 della variante inglese, in Veneto hanno esaminato i tamponi di cinque passeggeri rientrati da Londra: tre erano positivi al ceppo britannico. «Ne dobbiamo concludere che la carica virale, almeno da queste parti, è più forte che altrove», chiosa Flor. «Se a questo si aggiungono gli effetti collaterali dell’apertura delle scuole, una spiegazione ce l’abbiamo». Anche la percezione di un minor pericolo dovuta alla classificazione zona gialla, e un certo rilassamento dei residenti nei capoluoghi documentato ancora ieri dalla folla di persone in fila per entrare all’Ikea di Padova, sicuramente hanno contribuito.
La mancata zona arancione
E però la spiegazione degli uomini di Zaia non convince né l’opposizione, né i medici, né il professor Andrea Crisanti. «I dottori e la classe paramedica non ce la fanno più e chiedono da almeno un mese di chiudere il rubinetto del contagio», dice il segretario regionale del Pd Alessandro Bisato. «Il governatore avrebbe dovuto imporre di sua iniziativa la zona arancione prima di Natale, anche se la Cabina di regia continuava a lasciarci in giallo. Bastavano 15 giorni di restrizioni e saremmo potuti ripartire, invece siamo diventati la regione peggiore». Dello stesso avviso Adriano Benazzato, segretario veneto di Anaao Assomed, il maggior sindacato dei medici: «Il Veneto è stato irresponsabile. Qui serve il lockdown». Alcune sigle di categoria di medici e infermieri, riunitesi nel Coordinamento Covesap, hanno presentato un esposto a tutte le procure venete, tranne quella bellunese, chiedendo ai pm di verificare «se la Regione ha posto in essere tutte le misure più idonee alla tutela della salute pubblica» e «se sia ancora garantita l’assistenza sanitaria ai pazienti Covid e ai non Covid». E poi c’è il professor Crisanti, che da mesi contesta l’uso dei test rapidi nelle Rsa e sul personale sanitario. «Possono essere controproducenti, perché in tre casi su dieci i positivi rischiano di passare per negativi».