Corriere della Sera, 9 gennaio 2021
Moretti aveva già preparato la valigia per il carcere
La porta della stanza chiusa, il telefono lasciato squillare, l’iPad per leggere i giornali. Su uno di questi, l’ultima intervista del presidente del comitato delle vittime di Viareggio, Marco Piagentini, che invoca in Cassazione una condanna al «sistema Moretti».
È una mattinata livida anche se a Roma spunta il sole, quella dell’ex ad di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, condannato nel 2019 in Appello a 7 anni per disastro ferroviario, e ora in attesa di verdetto. Un’attesa consumata tutta a casa, in famiglia, dopo una nottata «manzoniana». Sotto il «palazzaccio», in una piazza Cavour luminosa e deserta, un presidio del comitato viareggino attende.
È più di un anno che Moretti si prepara a questo giorno, dal giugno del 2019, quando quella condanna cambiò la sua vita, gravandogli la coscienza di una responsabilità pesantissima, impedendogli di proseguire attività pubbliche, mettendolo di fronte alla prospettiva concreta del carcere. Da quel momento la vita del manager che ha lanciato l’Alta Velocità, del capo azienda immanente, dell’uomo di potere capace di dire la frase sbagliata nel momento sbagliato (senza poi pentirsene, nemmeno davanti alla dimostrazione che anche le dichiarazioni, in un giudizio epocale come questo, hanno un peso), ha impostato la sua esistenza su un doppio binario. Di quelli che a un certo punto si separano per non incontrarsi più: da una parte, l’analisi puntigliosa dei punti deboli della propria difesa ma soprattutto della sentenza di Appello che lo ha condannato, condivisa quotidianamente con il suo nuovo difensore, con l’obiettivo di ribaltare tutto e tornare innocente; dall’altra, la meticolosa preparazione a un evento considerato non più impossibile: la reclusione. Una preparazione prima di tutto psicologica, ma poi molto pratica e rigorosa, com’è tipico del personaggio.
Racconta chi lo ha seguito in questi mesi, che Moretti abbia imparato tutto quello che c’è da sapere sul diritto carcerario per non farsi cogliere impreparato dagli eventi. Prevedere le cose è sempre stata una mania dell’uomo, ed è uno dei motivi per cui essere stato condannato in Appello per non aver «previsto», per non aver fatto tutto il possibile per prevenire, gli è suonato come un contrappasso beffardo. La preparazione all’ingresso in carcere è stata, dicono, meticolosa: dalle felpe, che devono essere senza cappuccio, alle scarpe col velcro e senza lacci, fino ai libri, un bel mucchio, senza copertina rigida, infilati nelle valigie, fino a scoppiare.
Quelle valigie sono già schierate dietro la porta quando, intorno alle 15, il telefono squilla e sullo schermo compare l’unico numero che, in una giornata come questa, riceverà risposta. Come siano andate le cose, viene ribattuto in un lampo dalle agenzie di stampa insieme con i commenti furenti e addolorati dei parenti delle vittime.
In vicende come questa anche chi ha la meglio non può esultare. Troppo dolore, troppo risentimento. In piedi, davanti allo specchio, Moretti si rigira tra le mani il foglietto su cui ha scritto l’unica parola, di quelle che ha ascoltato, che gli interessa: «innocente», come conseguenza dell’annullamento della sentenza di Appello e almeno fino al nuovo processo, sapendo che è l’unico ad aver rinunciato alla prescrizione. Alzando lo sguardo davanti a sé, ora vede un uomo di 67 anni, una carriera alle spalle, tutto un mondo intorno che è sparito da tempo, prima che l’oggi cancellasse il resto. Non resta che disfare le valigie. O magari partire senza. Forse, domani.