La Stampa, 8 gennaio 2021
La guerra di Secessione non è mai finita
Quando Nancy Pelosi, 80enne Speaker della Camera annuncia che il Congresso ratificherà la vittoria di Biden, un gruppo di senatori repubblicani si raduna per decidere il da farsi. Sono i ribelli guidati dal falco texano Ted Cruz.La capitale è stata assaltata al cuore, l’America ribolle e la scena dei britannici che nel 1814 incendiarono Casa Bianca e Capitol Hill torna, come un fulmine, un incubo. I deputati e i senatori devono decidere se andare avanti nell’ostruzionismo a Biden, privo di chance ma intriso di contraccolpi politici. In quasi 150 tireranno dritto a tarda serata, infischiandosene di scontri, arresti, lacerazioni. Fedeli fino alla fine all’uomo che ha indicato la strada al suo popolo per marciare su Capitol Hill.
Quasi tutti questi 150 provengono dagli Stati del Sud, dall’Ovest texano e Arizona sino alla Bible Belt. È la contrapposizione Nord contro Sud. E più che scorgere l’esercito britannico, qui sembra di precipitare qualche decennio più avanti, alla Guerra di Secessione, 1861-1865, con i sudisti che si rifiutano di riconoscere il primo presidente repubblicano Abramo Lincoln.
Sui media di tutto il mondo rimbalzano le immagini dei vandali che calpestano rozzamente i palazzi sacri del potere, rovistano nelle scrivanie, si portano a casa trofei come bottini di guerra. E si aggirano davanti ai corridoi del Senato con la bandiera dei Confederati, sventolata come segno identitario e di sfida al potere federale. I deputati del Sud e il vessillo «mito» sono un segnale fortissimo che ricorda quanto le due Americhe restino ancora distanti, difficilmente amalgamabili, un fiume carsico di diffidenza e culture contrapposte che dal 19° Secolo fa talvolta capolino. Violentemente.
Da fine degli Anni 70 South Carolina, Georgia, Alabama e alcuni Stati limitrofi hanno abbracciato i candidati conservatori. A traghettarli fu in fondo la candidatura alla presidenza da indipendente di Wallace, governatore dell’Alabama, che prima ci aveva provato per tre volte da democratico. Corse per la Casa Bianca con una piattaforma razzista, sfidando il Civil Rights Act di Johnson.
Le vittorie in Georgia martedì del reverendo afroamericano Warnock e del giornalista ebreo Ossoff hanno riacceso spiriti e istinti suprematisti. Reagan e Bush junior con le loro coalizioni conservatrici eterogenee ma solide avevano corteggiato, sedotto, ma anche ammansito certi atteggiamenti. Ora non c’è più quell’argine, la rabbia si mescola alla paura. La Guerra fratricida, Abramo Lincoln, i generali Grant e Lee, Gettysburg, Fort Sumter, sono nomi lontani nel tempo, ma l’odore di quella contrapposizione si spinge sino a Capitol Hill e sfila sotto i vessilli sulla scalinata del Campidoglio e nei corridoi del potere.
In fondo il Sud si è sempre sentito altro dal Paese. Bibbia e campagne, capitalismo domestico e un ordine sociale immutabile, gerarchico. Con il maschio bianco saldamente in vetta, il fucile e la Bibbia in mano. Alexander Stephens, vice presidente dei Confederati, spiegò la sua ostilità alla Costituzione federale con un lapidario: «Quelli stanno tentando di rendere uguali le cose che il Creatore ha voluto fossero diverse». La parola progresso è sinonimo, nelle frange più estreme, di perversione. Così difendere l’ordine (la religione e la supremazia dei bianchi) dall’influenza liberal è sempre stata una missione. Deputati e senatori a Washington erigono barricate contro l’influenza federale, agli albori della Repubblica rifiutavano, da Richmond in giù, persino gli investimenti per costruire strade, canali banche e scuole. E solo nel 1980 il Mississippi ha ceduto alla creazione di scuole per l’infanzia pubbliche.
Spiega Calvin Jillson della Southern Methodist University: «L’elezione di Ossoff e di Warnock significa che la Georgia sta cambiando morfologia, sta diventando più urbana, più prosperosa, diversa. E questo causa nervosismo e paura, ostilità fra i bianchi». Ecco perché, mobilitandosi per Trump, in realtà il Sud si mobilita per se stesso e per la sua identità.