la Repubblica, 8 gennaio 2021
In morte di Giuseppe Turani
Giuseppe Turani, per tutti Peppino, era unico nel suo genere. E lui stesso ne era conscio, ci giocava, si divertiva, come si diceva una volta, a épater le bourgeois, a stupire il borghese. Piccolo di statura, occhi sornioni, la voce vellutata, era un grandissimo raccontatore di storie vissute, aveva portato l’economia al livello di comprensione da parte di qualsiasi persona. Riusciva a spiegare con semplicità meccanismi complessi e, per di più, sapeva pescare un lato umoristico in ogni circostanza. Irriverente, solitario, talentuoso. Non esisteva altro giornalista in Italia che potesse “ricevere” abitualmente a pranzo al tavolo d’angolo di un ristorante di corso Venezia, con l’aria di chi può starci tutto il tempo che vuole.
Là sono passati, e non si esagera, migliaia di commensali diversi nel corso degli anni, anzi dei decenni: imprenditori, capitani d’industria, uffici stampa, boiardi di Stato, finanzieri, banchieri, ma anche semplicemente amici di Voghera, aspiranti giornalisti, le donne delle quali s’innamorava, a volte perdutamente. Un grande mix, una cornucopia di “fonti primarie” che gli permetteva spesso non solo di scrivere prima e meglio degli altri, ma anche di dare corpo a una delle sue più grandi passioni: la conoscenza dei segreti piccoli e grandi del potere italiano.
Una passione che andava al di là degli schemi di un articolo, che non sconfinava quasi mai nel pettegolezzo, ma sottintendeva un desiderio di letteratura: anche se un grande affresco su quel mondo – a quanto si sa – non l’ha mai scritto. Quanto agli articoli, restano di un numero incalcolabile: batteva i tasti a velocità sorprendente, dritto al punto perché aveva incamerato centinaia di ore di conversazione nelle giornate infinite e nelle notti insonni. Sapeva come far tardi senza annoiarsi.
Se n’è andato l’altro ieri, un malore l’ha preso nella cascina-casa di Tassara, sui colli piacentini. Qui, tra pareti foderate di libri di ogni genere, viveva ormai molto più spesso che a Milano. Un’oasi di tranquillità non lontana da Voghera, dov’era nato, e che aveva lasciato presto. Quelle strade, che aveva percorso ai tempi su una costosa e pesante motocicletta, o guidando piccole auto con sprezzo delle curve, in questi giorni erano disgraziatamente gonfie di neve. L’autoambulanza, chiamata dal cognato, ci ha messo molto ad arrivare; ed è anche uscita di strada. Quando il giornalista è arrivato in barella all’ospedale più vicino, quello di Broni, non c’è stato molto da fare. Non ci sarà funerale. Verrà cremato. E ieri pomeriggio l’ex sindacalista socialista Renzo Canciani è stato tra i primi ad avvisare gli amici della sua morte: «Non aveva risposto all’ultimo messaggino, ci siamo preoccupati». E i social si sono subito riempiti del cordoglio e della tristezza di chi l’aveva conosciuto.
Turani non aveva compiuto ancora gli ottant’anni e aveva subito alcune operazioni al cuore: s’era ristabilito fisicamente alla perfezione, sembrava però patire una forte nostalgia del lavoro e della scarica di adrenalina che può accompagnare la ricerca delle notizie per scrivere un buon pezzo. Aveva perso una rubrica giornalistica, gli restava la versione online di “Uomini e Business” ed era davvero un po’ poco per chi, c ome lui, ha attraversato nella vita numerosi quotidiani e settimanali, ha fondato riviste, riempito un paio di scaffali con volumi economici e scritto, con Eugenio Scalfari, un libro che fece epoca. Era intitolato Razza Padrona, ci vinse nel 1974 il Premiolino.
Con il suo tono basso e vibrante, era capace di tenere tavolate intere spiegando, per esempio, la nascita dell’Eni e le visioni di Enrico Mattei: «L’abbiamo descritta come l’invenzione del petrolio italiano, ma il fatto è che erano una banda partigiana. Uno dei dirigenti finiva di lavorare la sera a San Donato e, con la nebbia fitta, da tagliare con il coltello, saliva su una Motoguzzi e andava magari a Mantova, dove...». Non gli sfuggivano le intuizioni e gli spifferi delle grandi famiglie del capitalismo italiano, che con l’aiuto di Enrico Cuccia e Mediobanca portavano a operazioni di Borsa clamorose. Di Aldo Ravelli, agente di cambio che fece il carcere per non parlare dei clienti che esportavano i capitali all’estero, era stato più che un conoscente.
Peppino Turani era insomma uno che non “mollava” mai facilmente, un professionista di qualità. Aveva saputo superare la crisi, anche personale, della stagione di Tangentopoli. Era stato accusato di essere un po’ troppo contiguo alla famiglia Ferruzzi e all’operazione Montedison, quella che creò, secondo il pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro, non solo una fusione aziendale che avrebbe potuto cambiare la chimica italiana, ma anche «la madre di tutte le tangenti». Ne era uscito pulito, ogni illazione decadde, poi da giornalista visse da vicino anche le storie della “teste Omega”. Così era chiamata nei verbali secretati Stefania Ariosto, che aprì con le sue testimonianze davanti a Ilda Boccassini le clamorose inchieste sulle corruzioni dei giudici della Cassazione messe in atto da Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi, per conquistare la Mondadori.
Era la cosiddetta Prima Repubblica, composta da persone che, come lui, venivano dalla gavetta e non erano designate dall’alto: né nei partiti, che avevano come pilastro le sezioni o le parrocchie, né nelle aziende lombarde, dove la meritocrazia era ferrea. Forse in quella Prima Repubblica era anche più facile perdonarsi a vicenda e capirsi al volo. Oggi va detto che, accanto al talento, Turani non perdeva e non voleva perdere l’abitudine di smitizzare e di sfottere chiunque. Lo spirito polemico sgorgava improvviso dall’affabulatore di grande fascino. E per giornalisti simili non è sempre facile trovare spazio nelle consuete pagine di carta, o inventare uno stile inedito per l’online. Quindi, questa improvvisa morte tra la neve, il silenzio e la provincia può apparire un po’ una metafora del nostro tempo complesso, con grandi cambiamenti nell’editoria e costellato dalle difficoltà, tanto per i giovani affascinati dal mestiere, quanto per i vecchi leoni, di trovare uno spazio decente anche quando si ha qualcosa da dire. E Peppino Turani sapeva dire. E scrivere.