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 2021  gennaio 08 Venerdì calendario

L’inflazione non c’è più


Non è un bene. Non del tutto, almeno. Potrebbe persino segnalare – insieme al diffondersi delle aziende zombie – un profondo malessere dell’economia. Dell’inflazione se ne sono quasi perse le tracce, in Eurolandia: i prezzi decrescono moderatamente da agosto, rispetto all’anno precedente, e anche il dato flash di dicembre pubblicato ieri mostra una flessione annua dello 0,3%, come a novembre, ottobre e settembre. In parte è effetto del crollo dei combustibili: durante la pandemia si circola molto meno; ma anche depurando l’indice della componente energia, il quadro cambia poco: i prezzi sono aumentati dello 0,5%. Escludendo infine anche alimentari e tabacchi si passa a una core inflation dello 0,2 per cento.
Il 2020 ha segnato anche una svolta piuttosto brusca: l’inflazione media, da agosto, è pari allo 0,6%, contro l’1,4% dei primi mesi dell’anno scorso. Ora è possibile che i prezzi accelerino leggermente: il rialzo dei combustibili, la fine dei saldi e della riduzione dell’Iva tedesca porteranno a un miglioramento della situazione, secondo diversi analisti, ma in ogni caso l’inflazione resterà bassa.
Non è una novità. Dalla fine della Grande recessione l’inflazione – negli anni precedenti ancorata all’obiettivo del 2% – mostra un’irresistibile attrazione verso quota zero: le politiche della Banca centrale europea – dai primi programmi di acquisti di titoli, al whatever it takes di Draghi, ai quantitative easing – sono riuscite temporaneamente a riportare la velocità dei prezzi verso l’alto, ma solo per vederla ripiombare.
Bene, da un certo punto di vista. È un momento, tragico, in cui – oltre alle difficoltà sanitarie – Stati e aziende sono costrette a indebitarsi, avere lo spazio per applicare una politica monetaria molto espansiva può essere una benedizione.
Altre preoccupazioni possono allora passare in secondo piano. È vero, per esempio, che una politica monetaria così generosa potrebbe far esplodere in un secondo tempo i prezzi; ma non se ne vedono segni premonitori. Gli analisti di BofA, guidati da Ethan Harris, considerano per esempio una ripresa dell’inflazione un evento possibile e rischioso, ma dalla bassa probabilità.
La lowflation è comunque una situazione non del tutto sana, perché un livello moderato di inflazione – il 2% – dà un po’ di flessibilità all’economia: permette l’aggiustamento degli stipendi evitando la loro flessione, e facilita il rimborso dei debiti.
A complicare le cose è però il problema delle aziende zombie: quelle imprese, diventate rilevanti durante la lunga crisi giapponese, che sopravvivono a stento, perché in grado – semplificando – di pagare gli interessi ma non il capitale. Sono le prime aziende destinate a fallire durante un rialzo dei tassi, mentre sono molto aiutate dalle politiche espansive. A volte indebitamente. Quando il fenomeno diventa troppo ampio, queste imprese mantengono a livelli inadeguati rendimenti del capitale e produttività dei lavoratori, investimenti e valore aggiunto: le imprese zombie rallentano la crescita.
È un problema di lunga data. L’attuale capo economista del Fondo monetario internazionale Gita Gopinath ha studiato a lungo l’effetto delle politiche monetarie della Bce sui Paesi del sud Europa – e in particolare della Spagna – per i quali sarebbero stati necessari, fin dal ’99, tassi un po’ più elevati. Il costo del credito più basso del dovuto avrebbe determinato – oltre alla bolla immobiliare che schiacciato l’economia iberica nel 2008 – anche il proliferarsi delle imprese zombie.
A questo scenario, già di per sé inquietante, si aggiunge ora un altro elemento. Secondo una ricerca compiuta dagli economisti della Fed di New York (Zombie Credit and (Dis)-Inflation: Evidence from Europe di Viral VAcharya, Matteo Crosignani, Tim Eisert, Christian Eufinger), in Europa è il credito zombie, i prestiti a tassi bassi a imprese deboli concesso da banche non sufficientemente capitalizzate, a creare «un’eccessiva capacità di produzione che tiene bassi i prezzi». Senza questo tipo di credito l’inflazione di Eurolandia, notano gli autori, sarebbe stata di 0,4 punti percentuali più alta dal 2012 in poi: da allora a oggi, la media è stata dell’1% (1,2% escludendo l’energia). «La crisi del Covid-19 – continua la ricerca, pubblicata il mese scorso – e il risultante deterioramento della salute di imprese e banche, insieme all’idea che le banche centrali terranno i tassi bassi per un tempo indefinito», hanno ulteriormente aumentato le preoccupazioni” di una “zombificazione” o “giapponesizzazione” dell’Europa.
Si crea così un circolo vizioso: la politica monetaria espansiva moltiplica le imprese che a stento galleggiano, le quali frenano la dinamica dei prezzi che a sua volta richiede una politica monetaria ancora più espansiva. Il risultato finale è una sindrome giapponese, che non potrà non pesare sui bilanci di banche e imprese. «Una banca centrale che introduca misure di politica monetaria che contribuiscano a una persistente zombificazione dell’economia con l’obiettivo di recuperare l’inflazione e la crescita potrebbe finire con il lavorare contro i suoi stessi obiettivi».
Cosa fare allora? Bisogna agire sulle banche, secondo lo studio: «Una politica monetaria accomodante potrebbe essere più efficiente, in un periodo di un settore finanziario indebolito, se accompagnato da un programma mirato di ricapitalizzazioni bancarie». La debolezza delle aziende di credito è un fattore chiave di questo processo: in situazioni di difficoltà, le banche forniscono prestiti soprattutto alle imprese più deboli con le quali hanno un rapporto consolidato, anche per evitare perdite. È qui che il processo va interrotto.