ItaliaOggi, 7 gennaio 2021
Se Amen diventa Awomen. La follia del politically correct
Il politically correct è un cancro e ormai siamo alla metastasi. Succede che al Congresso americano, dove per il pastore protestante Emanuel Cleaver, deputato democratico eletto alla Camera dei rappresentanti per il Missouri, «Amen», sì proprio quello che ognuno di noi ha detto almeno una volta nella vita, viene integrato con «Awomen». Perché nelle loro teste A-men, gli uomini A, come l’A-Team con Mr T, per capirci, e quindi A-women, sia mai che discriminassimo in nome del patriarcato sessista. Ignoranti incapaci di scrive «o» col fondo del bicchiere: amen, secondo l’Enciclopedia Treccani, è parola ebraica derivante dalla radice semitica «mn col senso «sostenere, esser saldo», quindi «esser certo, veritiero», ecc. Capito?E per giunta il pastore protestante, uno che dovrebbe saperlo non foss’altro manco se ricorda le basi der mestiere (cit. Mario Brega) che fa l’inclusivo. Come se non bastasse, Cosmopolitan mette in copertina donne obese e scrive che questa è: «Tutta salute». Parlo dall’alto dei miei obesi 180 kg: secondo i miei dottori morirò d’infarto a meno che non mi faccia una bella chirurgia bariatrica e mi tolga di dosso 80 kg. Credo più a loro che a Cosmopolitan e la sua ridicola prevenzione del body shaming. E in ogni caso no, troppo grasso o troppo magro non è affatto salute: prima s’indignano per l’anoressia, poi dicono che l’obesità va bene. Vedete un po’ di mettervi d’accordo con voi stessi.
Vabbè. Riferisce l’AdnKronos che dal linguaggio della Camera dei rappresentanti vengono espunti i pronomi, insieme con «uomo», «donna», «madre», «figlio». Spokesman, portavoce, non è necessariamente maschio e quindi già da tempo negli States si dice spokeperson, che è sempre portavoce però non dispone di attributi sessuali né riguarda l’orientamento gender, sia mai qualcuno osasse bestemmiare così. Già su Facebook o su alcune comunicazioni inizio a leggere, anche in questo scombinato Paese, espressioni tipo: «Buonasera a tutt*», che è linguaggio ispirato ai computer per dire: «tutte le versioni» di un programma o sistema operativo, per esempio. Così se uno scrive: «Buonasera a tutt*», intende «Buonasera a tutti e tutte». Eh no no no, a quel paese la grammatica col maschile che prevale al plurale sennò Michela Murgia, Laura Boldrini e soc* s’incazzano.
Don Lorenzo Milani, che di parole se ne intendeva, ebbe modo di dire che: «Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata». Per dominare le parole, egregi politicanti corretti, servono – incredibile ma vero – le regole. E serve soprattutto riempire di senso una parola: non serve a niente dire «ministra» per essere più inclusivi o scadere nel ridicolo di «awomen», se una ragazza non è libera di girare la sera per strada e se poi, quando la portano in tribunale, c’è sempre il fenomeno che chiede: «Ma lei com’era vestita?». Detto chiaro chiaro: può anche andare con una maglietta griffata: «Sesso subito», ma un «no» dovrebbe bastare.
Questo forse è femminismo, come forse sarebbe femminista difendere una donna che sceglie di fare un figlio e non deve perdere il posto lei né, tantomeno, avere problemi il suo datore o la sua datrice di lavoro. E così dovrebbe essere libera, a me pare, una donna di non avere figli e vivere la sua vita da single o meno in santa pace. Ce la fate o no?
Invece no: ormai la metastasi è in circolo. Insieme con l’ignoranza. Come se bastasse una lettera o un asterisco per cambiare la sostanza delle cose.
E vedete, non è ozioso parlare della lingua e del suo uso, perché le parole devono figliare parole nuove a mostrare che la lingua sia viva, com’ebbe a notare quel gran poeta che fu Ignazio Buttitta, perché se le parole non figliano nuove parole e dunque descrivono nuovi concetti e nuove idee una lingua è morta. O è schiava: lockdown, vaccine day, e tutte le fregnacce politically correct d’Oltreoceano.
Non si tratta qui di far dire alle persone «calcolatore» anziché computer, non ci hanno ibernati nel 1965: si tratta solo di tenere presente che «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». Parola del professor Carmelo Franzò, alter ego di Leonardo Sciascia, ne Una storia semplice. Appunto.