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 2021  gennaio 07 Giovedì calendario

Il successo del Post di Bezos


«La mia gestione di The Post e il mio sostegno, che rimarrà incrollabile, è qualcosa di cui sarò molto orgoglioso quando avrò 90 anni e rivedrò la mia vita». Scriveva così a febbraio 2019 Jeff Bezos, in un lungo post su Medium puntando l’indice contro David Pecker, editore del giornale scandalistico National Enquirer, reo di puntare a «ricatto ed estorsione». C’erano di mezzo le foto osè inviate alla giornalista Lauren Sanchez, con la quale il fondatore e ceo di Amazon ha una relazione. Ma c’era di mezzo anche il riferimento all’ormai ex presidente Usa Donald Trump, alleato e amico di Pecker. Chiaro dunque il messaggio di Bezos: se voleva essere una minaccia al Post, era destinata a cadere nel vuoto. La storia ne ha dato testimonianza. L’ultimo scoop del Washington Post è l’audio della telefonata con cui Trump ha esortato (a tratti minacciato) il segretario di Stato repubblicano della Georgia, Brad Raffensperger, a trovare voti per ribaltare la sconfitta contro Joe Biden.
La spinta di giovani e mobile
Oggi, al traguardo del settimo anno dell’era di Jeff Bezos, il Washington Post vanta un successo raccontato dalle cifre: gli abbonamenti digitali, anima del modello di business, sono triplicati in quattro anni e lievitati del 50% dal 2019, superando i tre milioni su scala globale. Di più: a novembre, ultimi dati disponibili, Comscore ha riportato 113,9 milioni di visitatori unici per le sue pagine (+43% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente). E novembre è stato il secondo mese in assoluto nelle classifiche di “traffico” per il quotidiano, alle spalle del record di marzo quando ne aveva riportati 138,9 milioni. Una parte significativa di questo pubblico, inoltre, è giovane, garanzia di futuro: il 27% è nella fascia di età compresa tra i 18 e 34 anni di età. Per ben 97 milioni di utenti, in aumento del 45% dal 2019, l’accesso è avvenuto attraverso device mobili.
Nuove assunzioni e tecnologie
Gli abbonamenti digitali sono il più chiaro segno del cambio di passo. Rispetto al 2016 sono triplicati per il Washington Post come per il New York Times che guida la classifica dall’alto dei suoi 6 milioni. La ricetta? Per entrambi innanzitutto investire sulla forza lavoro e sulla qualità. Il Washington Post rimane non quotato (è stato delistato proprio da Bezos) e restio a svelare dati su performance editoriali e finanziarie. Ma il publisher e ceo, Fred Ryan, in un recente memorandum interno ha assicurato che nel 2021 è in programma la più grande espansione del corpo giornalistico nella sua storia: l’assunzione di 150 nuovi redattori, che porteranno il totale oltre i mille, record assoluto per la testata. Saranno potenziate non solo le attività statunitensi ma anche internazionali, in Europa e Asia. Nuove sedi apriranno i battenti da Sydney a Bogotà. Oltre al potenziamento dei team dedicati alle frontiere calde del giornalismo audiovisivo e digital first.
Del resto il game changer nel caso del Post è stato combinare l’iniezione di risorse alla rivoluzione tecnologica oltre che a un necessario cambiamento strategico. Così è decollata una separata divisione di “branded advertising”, il WP BrandStudio, con una sofisticata produzione pubblicitaria offerta a terzi. Il Post ha dato vita poi a una ancor più inedita attività di licensing di proprie piattaforme e software: nella pubblicità, con Zeus oggi utilizzato da oltre cento siti, e nella stessa gestione del content. Quest’ultima piattaforma, battezzata Arc, è stata adottata non solo da altri gruppi media, ma anche da un colosso industriale quale BP per la sua informazione interna.
Non che si sia partiti da una situazione di privilegio. È difficile immaginare adesso che nel 2013 il Post, nonostante il glorioso passato dei “Pentagon Papers” e dello scandalo Watergate, era sull’orlo del collasso quando, nei panni di cavaliere bianco per quanto controverso, si era palesato il re di Amazon Jeff Bezos. Lo aveva rilevato da una delle ultime famiglie americane di editori puri, i Graham, per 250 milioni di dollari, attraverso “Nash”: una holding creata ad hoc. Una cifra irrisoria per quello che era già destinato a diventare l’uomo più ricco al mondo (patrimonio stimato di 190 miliardi di dollari) e alla guida di una Amazon che nei primi nove mesi del 2020 ha realizzato ricavi per 260,5 miliardi di dollari, con profitti per 14 miliardi. Ma l’acquisto da parte di Bezos è stato un gesto essenziale per il futuro del giornale della capitale.
Da locale a internazionale
La transizione del Washington Post da giornale “locale” a organo di stampa nazionale e internazionale all’inizio è passata anche attraverso l’offerta ai giornali locali e internazionali di pubblicare tutti i suoi contenuti sul proprio sito web, senza guadagnare un solo dollaro in cambio. In più di 300 hanno aderito. Solo uno il vincolo per i lettori: iscriversi gratuitamente al servizio “Washington Post”, tramite la propria email. Tutti contenti, in primis i siti partner. Il tutto però non rendendosi conto di regalare al “Washington Post” la merce più pregiata: i contatti dei loro abbonati.
Verso il cambio ai vertici
Il 2021 potrebbe ora essere il momento del cambio della guardia ai vertici, a cavallo tra continuità e rinnovamento. Il direttore che con la sua reputazione e aggressività giornalistica, affiancata alle risorse di Bezos, ha guidato la ripresa potrebbe passare il testimone. Martin Baron – ex Boston Globe dove era stato responsabile della scoperta dello scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica – sta discutendo le modalità. A 66 anni potrebbe lasciare una volta tornata una normalità post-pandemia, vale a dire dopo riaperture della sede prevista al momento non prima di giugno. Di recente, a esplicita domanda sulla successione si è schermito senza smentire: «TBD», to be decided, vale a dire in attesa di decisioni. Intanto si specula sui candidati ideali per raccogliere la sua eredità. Nomi quali Kevin Merida, passato al Post e oggi dirigente al canale sportivo Espn. Merida, che è afroamericano, darebbe anche nuova spinta agli sforzi di diversity dei media americani. Altro candidato in lizza è Steven Ginsberg, responsabile dal 2017 della copertura nazionale e quindi con cruciali meriti nelle inchieste sulla presidenza di Donald Trump che hanno portato alla ribalta e fatto conquistare premi al giornale. Del resto l’intensità dei riflettori puntati sui vertici del Post testimonia una verità: la ritrovata centralità di un quotidiano nato 143 anni or sono e con all’attivo 69 premi Pulitzer secondi solo al New York Times. Riportato da Bezos a nuova vita.