ItaliaOggi, 6 gennaio 2021
«Il giornalismo manca di storie». Intervista a Giorgio Dell’Arti
Ha scritto un libro divertentissimo, Giorgio Dell’Arti, giornalista, classe 1945, natali catanesi ma una vita tutta romana. Per la Nave di Teseo, suo nuovo editore, ha pubblicato «Gli onorevoli duellanti. Il mistero della vedova Siemens», 176 deliziose pagine fra storia e politica tratte, col rigore di chi ama i giornali, dalle cronache degli anni 10 del secolo scorso. Si ripercorre una vicenda che ha come sfondo le polemiche sulle alleanze internazionali: l’Italia schierata con la Triplice stava dalla parte del Tedesco, avversario di sempre. Si parla dei primi servizi segreti, appena nati, in singolare coincidenze con l’oggi, visto che proprio in questi giorni, le cronache insistono proprio sull’intelligence nazionale, la cui delega il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non intende cedere.Domanda. Dell’Arti, dopo il libro su Camillo Benso conte di Cavour, le prosegue nella sua vena storica.
Risposta. Un attimo Pistelli, io c’ho la medaglia.
D. Prego?
R. No, dico, se lei va sul sito della Treccani, mi troverà presentato come «autorevole storico».
D. Medaglia meritata. Senta, una dei protagonisti in questa storia deliziosa dell’anno 1910, è Eleonora Füssli vedova Siemens: bella, intelligente, volitiva. Le sue frequentazioni degli alti comandi militari indussero a sospettarla una spia. Lei che idea se ne è fatto?
R. Che la vedova passasse informazioni alla famiglia, ai Siemens appunto. Noi crediamo che la globalizzazione sia nata oggi ma, in realtà, è un affare secolare. I Siemens, che mettevano cavi, piantavano telegrafi, che collegarono la Russia alla Persia, avevano un gran bisogno di informazioni riservate sugli Stati. E non erano i soli.
D. Vale a dire?
R. Prima di loro, i Rothschild, che cominciano con un signore che traffica in uomini in arme, vende cioè mercenari agli Stati in guerra, guadagna e poi passa a prestare danaro. Avendo cinque figli intelligenti, caso raro in queste imprese, uno lo mette a Londra e uno Parigi e da lì finanziano le corti. Pure quella di Papa: Gregorio XIII.
D. Mi sta dicendo che lo spionaggio delle prime società finanziarie precorse quello degli Stati?
R. Beh, certo questi avevano bisogno di informazioni di prima mano. Pensi ai Krupp…
D. Che lei, nel libro, ricorda aver venduto all’Italia un cannone da 75 ma, soprattutto, la licenza di produrlo.
R. Esatto. Questi erano già alle royalties, muovevano capitali, avevano bisogno di avere sistemi informativi affidabili. E li usavano.
D. Coincidenza interessantissima, il suo libro, che parla anche di servizi segreti di un secolo fa, esce nel bel mezzo di una polemica accesissima, all’interno della maggioranza che sostiene il Conte II, sui servizi segreti attuali.
R. Il mio racconto nasce dalla morte di Tancredi Saletta, il capo di stato maggiore, l’uomo d’arme passato ai comandi, a lui si deve la creazione dell’Ufficio «I», il primo Ufficio informazioni.
D. Uffici informazioni che tornano d’attualità: dopo la stagione del Sid e delle stragi, del Sisde-Sismi, i servizi riformati, se ne parlava molto meno. Sono ancora importanti?
R. Come no? Importantissimi. Noti che spesso, il presidente del consiglio è uno che è passato dagli Interni, ossia uno che, di servizi, se ne è fatto una certa esperienza diretta.
D. Come Francesco Cossiga.
R. Certo, o come Scelba, Fanfani, Andreotti, Rumor tutti passati dal Viminale. E secondo me, ogni volta che il presidente della Repubblica deve dare un incarico, una telefonata ai servizi la fa.
D. Dice?
R. Beh certo, deve incaricare il capo di un governo, se c’è qualche problema alle viste, è bene saperlo, no? Io lo farei. Ora le mi dirà: «Significa che schedano pure i parlamentari?».
D. Esatto.
R. E io le rispondo: «E che cacchio devono fare?». Sono i servizi.
D. Insomma, le barbe finte non sono passate di moda.
R. Eh sì, non a caso c’è una battaglia politica in corso, sono ancora un potere.
D. Senta ma in questo suo libretto, denso di rimandi, si parla anche molto di giornalismo. Una lezione per l’oggi?
R. E che lezione. I giornalisti dei fatti che racconto seguono il duello fra i senatori, come segugi straordinari.
D. Si appostano sotto casa dei padrini, per farsi condurre nel luogo del confronto armato.
R. Rilegga quelle cronache strepitose. Scritte da penne superbe, che seguivano le storie palmo a palmo, ci si immergevano.
D. La regola del consumare le suole per far bene il giornalista, allora era assai rispettata.
R. E varrebbe anche per l’oggi: stare sul territorio, laddove la realtà accade. Ma scusi, prenda Dino Buzzati e le sue cronache, che ora Mondadori riedita. O prenda un altro, meno celebrato ma gigantesco, come Egisto Corradi, inviato del Corriere. Le sue cronache dei funerali di Fausto Coppi sono stu-pen-de. E c’era stato al cimitero.
D. Invece?
R. Invece oggi, con la scusa che Internet li ha rovinati, i giornalisti stanno chiusi nelle redazioni, realizzando suntini malmessi facendo giusto due telefonate e saltabeccano sul Web.
D. Già ma il giornalismo dei primordi sarebbe ancora possibile?
R. Senta Pistelli, Le Monde ha guadagnato 200 mila copie cartacee. E lo sa come ha fatto? L’attuale direttore «della redazione» Luc Bronner, che peraltro sta per lasciare, quando si è insediato ha buttato fuori tutti i giornalisti: fuori dalla redazione, a trovare storie.
D. In che cosa sbagliano i nostri giornali, lei che li frequenta da una vita?
R. Vede, oggi sono tutti convinti che quel che conta è la visione internazionale, la politica estera. Prenda Repubblica, prenda il Domani.
D. Lei non è ne è convinto, mi par di capire.
R. Macché visione internazionale, eddai. La visione la devi avere chiara su Centocelle e su quel che accade là, ma ci devi andare per capirlo. Ci vogliono storie, storie, storie. Non pensum. Oggi scrivono tutti dei pezzi che paiono editoriali ma questo inchioda la categoria tutta come appartenente alla casta. Questo ha fatto la fortuna di Marco, Marco Travaglio intendo: il Fatto quotidiano ha sfondato per questo. Anche se ora, a forza di difendere questo governo, alla fine pagheranno pedaggio anche loro.
D. Quindi, secondo lei, c’è spazio per un giornalismo nuovo, cioè antico.
R. C’è spazio. Non che i problemi manchino. È tutto vero: Internet e ammennicoli vari, il contesto complicato però che i giornali si sono difesi male: tutti. Invece di mettere in campo qualità di scrittura, profondità di argomenti e descrizioni, cura dei dettagli forsennata, fino a sfinirsi… Insomma Giampaolo Pansa andava ai congressi di partito col binocolo: voleva vedere in faccia i maggiorenti, coglierne le smorfie, la gestualità.
D. Grande Pansa, che Dio l’abbia in gloria, ma abbiamo lasciato in sospeso un «invece».
R. Sì invece i giornalisti sono rattrappiti in difesa, cercando di sfruttare il nemico, ossia Internet. Guidati da editori incompetenti che, in genere, non sanno di cosa si tratta, se si eccettua forse Cairo col gossip ed John Elkann con l’Economist.
D. Dovrebbero rileggersi i giornali degli anni 10?
R. Se li rileggessero si libererebbero di questa ossessione grafica, della bella pagina, che sono, mi creda, gli elementi della decadenza. Perché la domanda che vorrei fare a Cairo è la seguente: «Quando le persone vanno in edicola, a comprare il Corriere, cosa stanno comprando?». Gli articoli oppure le foto, i bianchi ritmici, gli scontornati, gli allineamenti?
D. Credo che risponderebbe: «Gli articoli».
R. Eh certo. Ma allora non si capisce perché li facciano così questi giornali, sembrano tutti novelli Paolo Pietroni quando inventò Sette. Dopo che aveva messo grafica e immagini, il buon Paolo diceva: «Chiamatemi quello del nero». In quadricromia, il nero era il testo. Per capire che importanza gli desse.
D. Beh lei, negli stessi anni, inventava Il Venerdì di Repubblica. Qualche rimorso?
R. Noi non avevamo quella capacità artistica, per così dire, e alla fine riempivamo il giornale di storie. Ora questa filosofia della sola immagine ha invaso tutto: oggi un quotidiano ha una pagina con tremila battute di testo. Il lettore ha comprato aria, praticamente. E allineamenti, certo, e bianchi ritmi scontorni e via dicendo. Ha vinto la filosofia di Piergiorgio Maoloni, grande facitore di quotidiani, buonanima.
D. Nel suo racconto emerge Guelfo Civinini, cronista del Corriere.
R. Una figura accantonata in fretta dal revisionismo del Dopoguerra, perché considerato compromesso col fascismo, con cui lui aveva peraltro rotto nel 1938, con le Leggi razziali.
D. Figura poliedrica: scrittore, poeta, esploratore.
R. L’abbiamo sepolto in fretta, se fosse stato francese, ancor oggi continuerebbero a ripubblicarlo ma noi siamo stronzi, mi perdoni il francesismo appunto.
D. Perdonato. Civinini come un cane da tartufi s’apposta, rincorre i padrini e i duellanti, scrive una cronaca lunga e bella ma non la firma.
R. Un grande, ma lei si immagini che, a quell’epoca, lui aveva un po’ meno di 40 anni ed era un personaggio già molto noto, uno che aveva già scritto il libretto de La fanciulla del West di Giacomo Puccini. Eppure si metteva a fare le veglie notturne sotto casa dei senatori per scovare e raccontare la location di quel duello.
D. Un po’ come se Aldo Cazzullo si mettesse per strada, notte e giorno, a inseguire una storia di cronaca.
R. Esattamente! E lui fece quel racconto incredibile, scordandosi appunto di firmarlo. Oppure, perché no? Decidendo di non firmarlo, come accadeva spesso all’epoca.
D. In questa lunga chiacchierata non le ho chiesto un parallelo fra il Parlamento di ieri e di oggi. Oggi non si duellerebbe più.
R. Il duello era una pratica barbara ma oggi sarebbe inutile: non c’è più l’onore. Chi ne parla più? Cosa sa un ventenne del senso dell’onore? Scomparso.
D. Beh però durante la modifica dei Decreti sicurezza di Matteo Salvini, al Senato si sono menati di brutto, leghisti e cinquestelle.
R. Ma quelle sono risse di strada. Non c’entrano con l’onore.