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 2021  gennaio 06 Mercoledì calendario

Biografia di Emma Dante raccontata dal lei stessa

È finito un anno spaventosamente straordinario. 
«È stato il tempo dell’Apocalisse. Qualcosa che ha cambiato le vite di tutti, che lascerà conseguenze inimmaginabili» avverte Emma Dante, regista di prosa, cinema, lirica di audace visionarietà, capocomica della compagnia Sud Costa Occidentale, con cui ha dato vita a spettacoli di forte impatto emotivo, vincitori di ben quattro Premi Ubu. Da mPalermu a La Scimia, da Le pulle a Le sorelle Macaluso, a Bestie di scena. 
Un anno vissuto pericolosamente per chi, come lei, fa un teatro ad alto tasso di fisicità? 
«In realtà io sono molto prudente, osservo tutte le norme di sicurezza, ho annullato quasi ogni impegno, dalla Bohème al San Carlo alle repliche di Misericordia, il mio ultimo lavoro. Il mio modo di far teatro, che mette i corpi in primo piano, può vivere solo sulla scena. Mandarlo sul web non avrebbe senso, lo streaming snatura l’opera. Ciò nonostante sì, qualche rischio l’ho corso. A Pavia, mentre allestivo l’Ifigenia in Tauride di Gluck un cantante si è ammalato di Covid ed è iniziato il calvario dei tamponi. Per fortunata negativi. Prove interrotte, tutto rimandato. Sperando nei vaccini». 
Ha fiducia nel vaccino? 
«Non vedo l’ora di farlo. Non vedo l’ora che tutti lo facciamo. E tornare a vivere e lavorare non più virtualmente. I teatri hanno patito tanto da queste chiusure forzate, a volte incomprensibili visto che sono tra i luoghi più controllati. Molti non riapriranno. Come tanti sono gli attori, i musicisti costretti a cambiare lavoro. Un patrimonio di cultura e arte che sta sparendo. A soccombere saranno i più fragili, i meno tutelati. La stessa logica del Covid». 
Insomma, un castigo di Dio su tutti i fronti. 
«Eppure qualcosa ci ha insegnato. Ci ha mostrato la vacuità di tanti nostri comportamenti, la frenesia di spostarsi continuamente, la nevrosi dello shopping. L’ossessione degli aperitivi, del bere per stordirsi, del cibo spazzatura... Un consumismo insensato nocivo per noi e ancor più per il pianeta». 
Cosa può annotare di buono nel suo diario del lockdown? 
«L’essermi ritrovata con del tempo per me. Per pensare, riposare, leggere libri dimenticati, come L’isola di Arturo, meravigliosa Morante, chissà perché non l’avevo mai aperto. E i romanzi di Gilberto Severini, autore appartato di grande fascino. A cosa servono gli amori infelici è una lettura che consiglio a tutti. E sempre sul tema, a farmi compagnia è stata una canzone di Fossati, C’è tempo. “Un tempo perfetto per fare silenzio/ guardare il passaggio del sole d’estate/ e saper raccontare ai nostri bambini quando/ è l’ora muta delle fate”». 
A proposito di fate, la Nave di Teseo pubblica una sua rilettura di fiabe famose. Titolo, «E tutte vissero felici e contente». Perché al femminile? 
«Perché le protagoniste sono donne, ragazze o bambine. Sono loro, le principesse, a cavarsela, il principe azzurro arriva sempre all’ultimo, non fa niente ma si prende tutti i meriti. Il maschile è secondario nella fiaba. Per giustizia quindi, meglio “felici e contente”». 
Da dove nasce l’idea di un libro sulle favole? 
«Dal palcoscenico. Le favole fanno parte del mio capitolo sul teatro per l’infanzia. La voglia di riscriverle ha origine da quelle messe in scena. La fiaba è un racconto orale che si rinnova ogni volta, cambia a seconda di chi lo narra e di chi lo ascolta, si presta a infinite varianti. Un’eterna metamorfosi che è la sua forza, il suo fascino. E questo vale anche nella riscrittura». 
Per esempio? 
«La mia versione di Cappuccetto Rosso al teatro Biondo di Palermo vedeva in scena due bambine che lottavano per avere la parte. Anche nel racconto ho sdoppiato la protagonista: Cappuccetto Magra e Cappuccetto Grassa, quella vera e l’usurpatrice. Poi, visto che la trama è quasi inesistente, una bambina va a portare la merenda alla nonna e incontra il lupo, ho aggiunto pezzi di altre fiabe: Cappuccetto Grassa divora le molliche seminate da Hansel e e Gretel, e pure la mela di Biancaneve». 
Cicciotella e bulimica... 
«Mangia troppo, mangia tutto ininterrottamente. Come tanti bambini che non si sentono abbastanza amati dalla mamma». 
Nelle favole da lei riscritte le mamme non ne escono benissimo. 
«Quella di Cappuccetto la manda sola nel bosco, quelle di Cenerentola e Biancaneve sono morte e al loro posto ci sono le matrigne. Non potendo dire esplicitamente a un bambino, attento tua mamma è infida, la favola la traveste da matrigna. Che vuole solo sbarazzarsi di te, mandarti in bocca al primo lupo che passa. Ce ne sono tante anche nelle realtà». 
E i padri? 
«Inesistenti. Debitamente morti, oppure manipolati, succubi delle mogli, incapaci di prendere le difese delle figlie». 

Da bambina qual era la sua favola preferita? 
«Non ne avevo, nessuno me le raccontava. E quindi me le inventavo. Essendo piuttosto solitaria, i soli interlocutori erano i miei fratelli. Più piccoli di me, li costringevo a rappresentare le mie storie. Ero già capocomica. Le favole le ho scoperte attraverso il teatro». 
Grimm, Perrault o Andersen? 
«Andersen, senza speranza né lieto fine. La penso come lui: la vita è una favola nera». 
«La Sirenetta», «La regina delle nevi», «Il soldatino di stagno» sono favole di morte. Eppure i bambini ne sono affascinati. 
«La favola è il modo giusto di aiutarli a accettare il tabu della morte. Se non gliela racconti bene, da grandi ne avranno paura». 
La più esemplare in questo senso? 
«Pinocchio. Per diventare bambino deve morire, lasciare il corpicino di legno, rinunciare a una libertà senza limiti. Diventare umani richiede sacrifici». 
Cosa vuol dire crescere? 
«Andare oltre il proprio ego, prendersi cura degli altri, specie dei più deboli. A un certo punto della vita è tua madre ad avere bisogno di te, a diventare tua figlia. Pinocchio ce lo insegna, alla fine si prende cura di Geppetto». 
Lei l’ha fatto con i suoi? 
«Con mia madre sì. Si era separata a 50 anni, era molto sola. Ho cercato di starle vicino, ma poi è morta presto. Mio padre si è risposato con una donna più giovane che lo ama e lo protegge. Per fortuna, visto che a 80 anni beve, e fuma come a 20. È la sua vita, va bene così». 

Riscritte in una lingua ironica, contaminata spesso dal dialetto, le sue fiabe hanno un altro tratto insolito: per i cattivi non c’è perdono. 
«Ci tengo a dire ai bambini le cose come stanno. Come il mito, anche la favola ha l’esigenza di formare codici etici. La morale della favola, si dice proprio così, è la parte più importante. Tutto il viaggio che abbiamo fatto prende senso nel finale. E il senso è che chi fa il male deve pagare. La matrigna e le sorellastre che hanno angariato Cenerentola devono espiare le colpe. Il perdono è un concetto religioso, non è semplice perché non è semplice il male che viene fatto. Io credo nella misericordia, ma la giustizia viene prima di tutto». 
Le principesse sono spesso vittime di umiliazioni e violenze. Come tante donne oggi... 
«Che forse, per aver letto troppe favole dove tutto questo era di rigore, sono cresciute con l’idea che le violenze del maschio sono qualcosa di inevitabile. Troppe donne sono ancora convinte che il marito, il compagno, le picchi per amore. Un bacetto e si passa sopra a tutto». 
Nella sua «Bella addormentata» Rosaspina viene svegliata dal bacio di una donna. 
«Perché no? Una principessa può amare un’altra principessa. A volte va meglio così, certi principi è meglio lasciarli perdere». 
In questi tempi cosa ci insegna la favola? 
«A trovare il coraggio per uscire da questa selva oscura sulle ali di arte e fantasia. Le favole ci portano in cielo a cavallo di una scopa». 
Una emblematica della condizione attuale? 
«Scarpette rosse. La maledizione di doversi muovere e danzare in tempi in cui ci chiedono di stare fermi. La dannazione di essere usciti a far baldoria mentre a casa la mamma muore». 
Le piacciono le scarpe? 
«Tantissimo ma ormai metto sempre le stesse. Non si aprono più gli armadi, sempre le stesse scarpe, gli stessi abiti. Si esce solo per qualche commissione, non per incontrare». 

Ha ancora senso pensare al futuro? 
«Si deve. Faccio progetti perché sono viva e per rispetto di chi è morto. Davanti a noi non c’è certezza, ma bisogna sognare». 
Prossimo sogno? 
«Al Mercadante di Napoli ho finito le prove di Pupo di zucchero, favola ispirata a quel grande narratore che è Basile. La storia di un vecchio (Carmine Maringola), che cucina un pupo di zucchero, uno di quei pupazzi colorati che da noi in Sicilia si usa fare per il 2 novembre, il giorno in cui i morti arrivano a farci visita. Si cucina per loro, li aspettiamo a tavola, lasciamo un posto libero, facciamo trovare ai bambini i doni da parte della nonna o del cuginetto che non ci sono più. Quei dolci antropomorfi raffigurano i defunti, mangiandoli è come far tornare i propri cari dentro di sé». 
I morti compariranno in scena? 
«Certo. Verranno evocati dalle sculture di Cesare Ingerillo, somiglianti alle mummie della Cripta dei Cappuccini. Un campionario di morti appesi come pupi, memento macabro e poetico di quello che toccherà a tutti noi». 
E il cinema? Cosa ha in mente dopo il grande successo delle «Sorelle Macaluso»? 
«Un film tratto dal mio ultimo spettacolo, Misericordia. Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura con Giorgio Vasta e Elena Stancanelli. Una favola comica e commovente sulla fragilità delle donne, la loro solitudine, la loro disperata vitalità. Povere Cenerentole in un mondo dove non ci sono più neanche le fate».