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 2021  gennaio 05 Martedì calendario

Ritratto di Vincenzo Muccioli

“SanPa” è il migliore racconto televisivo mai fatto su quella scheggia di mondo nato quarant’anni fa, sulle colline sopra Rimini, dove hanno vissuto (e ancora vivono) migliaia di disarmati guerrieri, che negli anni di fuoco dell’eroina e degli inferni artificiali, si sono inventati il modo di resistere al vuoto della droga, di fermarsi finalmente e di creare la più grande comunità di recupero d’Europa, San Patrignano.
E raccontandola al passato – compresi gli errori, i furori, il sangue versato – spiega le buone ragioni del suo presente, grazie a una rivelazione che le cinque puntate del documentario svelano un po’ alla volta, faccia dopo faccia. E solo alla fine del labirinto.
San Patrignano è cresciuta dritta sulle colline sopra Rimini, dall’anno 1978 in poi, e qualche volta storta nella cronaca. Sempre intrecciata alla storia e anche ai misteri del suo fondatore, Vincenzo Muccioli, un metro e novanta, 130 chili di eloquio torrenziale, esperto di sedute spiritiche e di reincarnazioni, che si considerava venuto al mondo per salvare quelli che non voleva più nessuno, i tossici, le scorie dell’eroina di strada, i sopravvissuti, che però volevano sopravvivere.
Lui li accoglieva con gli abbracci del cuore e le serrature della disciplina. Offriva lavoro, studio, socialità, una mappa abitabile della nuova vita. Chiedeva, a chi oltrepassava la sbarra d’entrata, di non piegarsi mai più alla sconfitta del buco che buca l’anima. Di camminare dritti. Di non essere più soli. Di reagire tutti insieme alla paura dei giorni a venire. Offriva la sua strada in salita e nessuna scorciatoia: salvava e puniva. Era la luce e il buio. Era la legge. L’amico e il nemico di tutti, anche di se stesso.
Vennero cento ragazzi, all’inizio. Poi cinquecento. Poi duemila. San Patrignano divenne un caso nazionale. Un caso politico, e anche giudiziario, difeso dai socialisti di Craxi e dalla destra proibizionista, per le ragioni sbagliate. Osteggiato dalla sinistra ufficiale che non si fidava delle sua intraprendenza, fumo negli occhi per quella libertaria, per ragioni così tanto ideali da risultare inservibili.
Muccioli autoritario piaceva all’opinione pubblica, alle famiglie sfinite dalla guerriglia dei figli tossici: basta buonismo, i drogati vanno messi in riga, anche con gli schiaffi. Piaceva anche quando la cronaca raccontava di gabbie di contenzione, catene alle caviglie, botte pesanti nei reparti, ai disobbedienti, agli indisciplinati.
E quando saltò fuori il corpo massacrato di Roberto Maranzano, ucciso a pugni nel reparto macelleria, poi trasportato nottetempo fino a una discarica vicino a Napoli, divenne “lo scandalo di SanPa”, che divise in due l’Italia.
La prima volta che sono arrivato a San Patrignano, l’omicidio era appena stato scoperto, anno 1993. In Comunità c’erano polizia e telecamere. Muccioli, circondato da avvocati, era seduto di fronte alla baraonda dei riflettori e dei cronisti: rispondeva, improvvisava, mentiva. Diceva che quel ragazzo morto era un fulmine a ciel sereno, non capiva, non sapeva.
Si scoprì il contrario. Per settimane saltarono fuori altri testimoni, altre prove, persino cassette registrate compromettenti. Fino a quando Muccioli ammise, sapeva tutto da quella notte di sangue e depistaggio, coprì “solo per difendere la Comunità” da un reparto andato fuori controllo.
Dopo un mese di colpi di scena, Muccioli restava imperturbabile. Un giorno, a metà della strada principale, scese dalla sua Land Rover, mi disse che non gli piaceva il tono dei miei articoli e pensava di querelarmi. Poi rise, disse: seguimi. Entrai con lui in quella cattedrale che era la mensa, dove stavano mangiando i 2 mila ospiti, un mare di teste chine. Attraversammo in lungo i cento metri della sala, camminando al centro, nel silenzio generale. In fondo c’era il suo tavolo e una sedia immensa, sproporzionata, grande tre volte le altre: un trono di legno e aria. Lui regnava da lì. Ed era quello che voleva farmi vedere. Il simbolo del suo dominio. Che coincideva con la sua vita e con quella dalla sua comunità. E guardando quel mare di teste che avevamo di fronte, ascoltando quel silenzio, gli credetti. Sbagliando.
Era uno strano mondo quello di San Patrignano. Intenso di facce e di storie. Ragazzi e ragazze che venivano dal Veneto ricco e dalla Sicilia agricola, dall’alta borghesia e dai ghetti. Una ragazza mi disse che aveva vissuto dieci anni in strada, un’altra che aveva rischiato di morire tre volte. Ex studenti mi raccontavano le notti in carcere o nei reparti psichiatrici. Ascoltavo storie di prostituzione, furti, Aids. Rinascite e ricadute. Per tutti, Muccioli era la roccia dopo il naufragio.
Quello era il tempo, in Italia, in cui l’eroina faceva morti e feriti. I preti di strada benedivano i corpi infagottati tra le sterpaglie dei giardini pubblici, all’alba. Le madri li piangevano. Lo Stato versava gocce di metadone nell’abisso. I politici offrivano legge e ordine, tranne i radicali di Pannella e i movimenti della sinistra giovanile che inauguravano le battaglie antiproibizioniste fatte di enormi quantità di parole in cima a altre parole.
Muccioli si occupava dei feriti. Li raccoglieva e li rimetteva in piedi. Diceva ai politici: voi chiacchierate, io faccio. Voi li tenete alla larga, io li salvo.
Aveva cominciato da solo: il suo podere, i primi capannoni, le prime roulotte. Ma i soldi veri erano arrivati dalla famiglia Moratti, quella del petrolio, più le donazioni di certi cantanti e attori che risarcivano il loro senso di colpa per i figli perduti. In dieci anni si era ingrandito di dieci volte. Allevava cani e cavalli di razza. Produceva vino, tessuti, mobili, più tutto quello che serviva: il cibo, i corsi, i laboratori. Gli scandali e i processi, avevamo moltiplicato la sua visibilità e anche il suo potere. Furoreggiava in tv. Sembrava destinato a regnare anche sulla politica: un profeta carismatico che conosceva il fine ultimo dell’esistenza, il disordine del mondo, i suoi rimedi.
Uscì ridimensionato dal processo Maranzano. Poi fu la malattia, anno 1995, a interrompere la sua parabola durata 17 anni. Ne sono passati altri 25. Ed è questa la rivelazione di “SanPa”, attraverso i molti che raccontano gli errori della Comunità, la sua crescita, la sua evoluzione, dopo quel trono vuoto. Perché è da quel trono vuoto che le migliaia di ragazzi venuti dopo, si sono rimessi in cammino per fare di San Patrignano il loro rendiconto e la loro repubblica.