Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 05 Martedì calendario

Dalla Fiat a Stellantis, una storia lunga 30 anni

Con l’operazione Fca-Psa si chiude un ciclo storico iniziato più di trent’anni fa. Una tendenza di lungo periodo segnata dai profondi mutamenti dell’industria dell’auto, dal progressivo indebolimento della componente italiana nella competizione internazionale e dalla necessità, comparsa più volte e con esiti diversi, di ricomporre questi due elementi nell’aggregazione – alla pari, prevalente e minoritaria a seconda dei passaggi – della Fiat con un’altra casa.
Il progetto Ford
Iniziamo dall’ultimo vero sacerdote dell’auto che ha officiato il rito del prodotto nella chiesa laica dell’industria, della tecnologia e del potere italiani: Vittorio Ghidella. A lui, poco prima della sua uscita nel 1988, si devono le trattative per l’integrazione fra Fiat e Ford, con la ipotesi di uno scambio azionario fra Fiat Auto e Ford Europe. Ghidella, in una intervista pubblicata dopo la sua morte da “Quattroruote”, avrebbe detto: «La Fiat era leader nelle piccole di massa, ma non era altrettanto preparata nelle medio–grandi, sempre più richieste sui mercati internazionali. Per entrare con autorevolezza in quel settore, bisognava investire molto, per cui era necessario guardare agli altri protagonisti e valutare possibili integrazioni. La Ford aveva problemi in Europa con le utilitarie piccole, che non aveva o non era capace di produrre, ma si difendeva meglio sulle medie. Ci furono mesi di discussione, di analisi, di studi: non se ne fece nulla».
Negli anni Novanta la prevalenza di Romiti in Corso Marconi, l’autunno dei due patriarchi (Giovanni Agnelli, ma anche il fratello Umberto) e la diversificazione nella finanza e nei servizi defocalizzano Torino dall’auto. E, questo, accade proprio mentre in Germania Daimler, Volkswagen e Bmw compiono poderosi investimenti e in Giappone Toyota assume la leadership di una Asia sempre più centrale. Il 30 giugno 1990, all’assemblea degli azionisti, di fronte alla prima erosione dei margini industriali, l’Avvocato è laconico e malinconico: «La festa è finita».
L’opzione tedesca 
Negli anni Novanta Fiat compie dunque minori investimenti in capitale fisso e fa alcuni errori strategici: l’invenzione del common rail per il diesel è ceduta nel 1997 a Bosch, che la industrializza e commercializza in tutto il mondo. Un disorientamento e uno spaesamento con ricadute drammatiche, ben delineate in «La Fiat dopo la Fiat: storia di una crisi 2000-2005» (Mondadori, 2006), dello storico dell’economia Giuseppe Berta.
Nel 1998, con l’arrivo a Torino come presidente di Paolo Fresco, si torna a ragionare su una integrazione. Fresco, già numero due di General Electric, è un negoziatore. La sua prima opzione è tedesca. I colloqui sono con Daimler: Fresco valuta il 100% di Fiat Auto 12mila miliardi di lire, mentre i tedeschi offrono 10mila miliardi di lire, in una operazione carta su carta che avrebbe consentito agli Agnelli di avere una quota, minoritaria ma significativa, di Mercedes. L’Avvocato, alla fine, dice di no. Non se la sente di passare alla storia come l’Agnelli che ha venduto Fiat Auto. Invita Fresco a guardare in America. Chrysler è già di Daimler. Restano Ford e General Motors. Fresco contatta Richard Wagoner, amministratore delegato di GM, e – avanzando il bluff di Mercedes, che in realtà è già una carta morta – costruisce un negoziato che porta all’accordo basato su un 20% ceduto subito per 2,4 miliardi di dollari e un 80% vincolato a una Put. Il desiderio da monarca malato e stanco di Gianni Agnelli è esaudito: soltanto dopo la sua morte la Fiat non sarà più degli Agnelli.
Il destino americano
In una Fiat prossima alla caduta definitiva, nel 2004 arriva Sergio Marchionne. GM è l’epicentro della crisi dell’auto americana. Se Torino costringesse Detroit a rilevare il 100% del capitale di Fiat Auto, General Motors fallirebbe. Marchionne è abile e spietato nel negoziato con Wagoner, da cui ottiene due miliardi di dollari. Sommandoli a quanto ha incassato la Fiat sotto la presidenza di Fresco, fanno 4 miliardi di euro netti. Con quella base di finanza straordinaria, Marchionne può costruire un risanamento formale dei conti che ha un inatteso perfezionamento industriale e strategico nella operazione Chrysler, quando nel 2009 Barack Obama assegna la più piccola delle Big Three. Da allora, tutto cambia. L’integrazione con Chrysler muta la natura di Fiat. Fin dal terzo anno, l’aggregazione ribattezzata Fca ha in Italia il 10% dei suoi addetti e deve al mercato nazionale la stessa quota di ricavi. 
La trasformazione della vecchia Fiat in qualcosa d’altro è accompagnata dai governi Monti (con una attenzione alla conservazione dei posti di lavoro in Italia), Letta e Renzi, che assistono alla decostruzione in Italia e alla ricomposizione all’estero delle sedi legali e delle sedi fiscali del gruppo fra Gran Bretagna e Olanda. Una traversata, non indolore per la comunità nazionale, in cui il sindacato delle tre sigle non riesce a trovare una coesione e una coerenza, diviso fra il massimalismo e il fiancheggiamento. In una industria dell’auto sottoposta allo shock violento dell’elettrico, Fca ha una caratteristica costitutiva: è finanziariamente debole, perché nata da «due società, Fiat e Chrysler, povere», avrebbe detto ripetutamente Marchionne. Ha il Nord America. Non ha l’elettrico, per cui servirebbero molti soldi. E, non a caso, questi elementi sono le doti principali che Fca (con Jeep e Ram) e Psa (con la sua cultura nell’elettrico) portano in dote l’una all’altra.
Il ritorno all’Europa
Nel 2015 l’idea è di una fusione con General Motors che è più grande, è più robusta finanziariamente e ha un patrimonio tecnologico superiore. Azionisti e vertici di GM non sono d’accordo. Un progetto, poi, trasformatosi sulla carta in un piano aggressivo. Tanto che, come ha raccontato il giornalista di Bloomberg Tommaso Ebhardt in “Sergio Marchionne” (Sperling & Kupfer, 2019), Marchionne ha linee di credito da 60 miliardi di dollari per una Opa ostile verso GM, che però non realizza. Negli ultimi anni di vita di Marchionne, prima della sua scomparsa il 25 luglio 2018, questa chiusura del cerchio – finanziaria e industriale, azionaria e strategica – viene a mancare. Nel post Marchionne, l’idea di una integrazione permane. Il senso storico di questa traiettoria di lungo periodo, alla fine, sembra sintetizzarsi nel fallimento della operazione con Renault-Nissan, che con la caduta di Carlos Ghosn ha aperto il vaso di pandora delle non poche contraddizioni della globalizzazione dell’auto, di cui il gruppo franco-nipponico è stato uno dei simboli più luccicanti. E, invece, nel completamento della operazione, ultra-classicista, Fca-Psa: due gruppi controllati da due dinastie dell’auto europea, e con un forte radicamento nel Vecchio Continente.
La Fiat non c’è più. La Fca non ci sarà più. La cifra europea con cui nasce Stellantis rappresenta la sua identità e, anche, la sua criticità. Soprattutto per due questioni. La prima è la sovraccapacità produttiva in Europa, con in più una sovrapposizione di funzioni manageriali da sfoltire e di nuclei progettuali e ingegneristici da ridurre. La seconda è costituita dagli equilibri reali di potere che, in un gruppo con una forte marcatura francese privata e pubblica e con una componente italiana già trascolorata da dieci anni di “americanizzazione” e di uscita dei quartieri generali fiscali e societari dal Paese nel vuoto della politica e nella sterilità del sindacato, si realizzeranno nelle scelte concrete di Carlos Tavares, amministratore delegato, e di John Elkann, presidente. Con ricadute non soltanto per gli azionisti, ma anche per i sistemi industriali, tecnologici e sociali di Francia e Italia, da dove è partita – e dove è tornata – tutta questa storia.