L’Arena, 5 gennaio 2021
Giancarlo Calciolari dalla psicoanalisi al tiramisù
Un balbuziente che diventa conferenziere persino in Giappone. Un perito elettrotecnico che studia da ingegnere. Un esperto nel controllo della combustione che si evolve in scrittore, filosofo e poeta. Un pittore che assume l’identità di Hiko Yoshitaka e che dai «cifratipi», calcografie di un solo esemplare, si converte alla psicoanalisi. E alla fine l’ultima mutazione, la più sorprendente: uno psicoanalista che rinuncia ai propri pazienti, lascia Verona per Parigi, si mette ai fornelli, indossa il toque blanche degli chef, viene promosso maître de cuisine et pâtisserie e inventa il dessert più conosciuto al mondo dopo il tiramisù, il cioccolatissimo, tortino al cioccolato dal cuore fondente, ma non lo brevetta, perché preferisce farne dono all’umanità.Difficile trovare un poliedro con più facce di Giancarlo Calciolari, nato il 3 novembre 1952 in via Faccio, allora zona di stalle e di casematte militari trasformate dai contadini in abitazioni abusive, autore di una quarantina di saggi, molti in francese, che spaziano dall’Homo cannibalis alla Lingua originaria di Freud, da Martin Heidegger ad Armando Verdiglione, dalla Cifrematica all’Ultimato del fallo, dalla Teoria dell’assoluto alla Teoria della cucina, forse la sua opera più famosa, 488 pagine che partono dalla Bibbia, passano per la cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio Arbitro e arrivano al pranzo funebre. Sembra quasi che si sia sempre sentito fuori posto, innanzitutto dentro i 2 metri quadrati della propria pelle, poi dentro i 199 chilometri quadrati della città d’origine e infine dentro i 510 milioni di chilometri quadrati del pianeta, così da coltivare incessantemente il «gusto dell’erranza». Lui si descrive così: «Ero straniero a me stesso, sono uno da Chi l’ha visto?».
Da quattro anni Calciolari abita a Sant’Ambrogio di Valpolicella, insieme con la seconda moglie, Christiane Apprieux, francese, e Champagne, un gattone con occhi da civetta. Da pensionato, aveva aperto in paese una gelateria-pasticceria, Gelatissimo. Nelle sue intenzioni, doveva essere la prima di una catena in franchising. È finita male: complice la pandemia, a luglio l’ha dovuta chiudere. «Restano aperti debiti per 90.000 euro, ma li salderò tutti».
Il sapiente erratico medita di tornarsene in Francia. Padre Antonio Christian Pagano, un eclettico paolino di origini napoletane, filosofo, teologo e giornalista, gli ha offerto di trasferirsi a Limours, 40 chilometri da Parigi, nel Relais de la Bénerie, complesso gastronomico-culturale di 6 ettari che ha aperto in una fattoria del 1500. E qui Calciolari conta di portargli la sua ultima creazione, «un’idea da niente, una bomba», destinata a surclassare in popolarità l’imitatissimo cioccolatissimo: «Ovviamente gli ingredienti non glieli posso dire, altrimenti me lo copiano subito. Scriva solo che si tratta di un dolce al mascarpone».
A scorrere le foto in bianco e nero che ha scattato personalmente ai personaggi frequentati fino a oggi, si resta sbalorditi: Emile Cioran, Régis Debray, Claude Simon (premio Nobel per la letteratura), Vladimir Bukowsky, Gérard Haddad, Jean-Pierre Faye, Gilles Martinet (il direttore amministrativo del settimanale Le Nouvel Observateur che fu ambasciatore di Francia in Italia), Giorgio Agamben, Pietro Citati, Rosetta Loy, Ginevra Bompiani. E, su tutti, Giuseppe Pontiggia, del quale è stato amico intimo sino alla fine, tanto da dedicargli Lo splendore della parola, pubblicato da Transfinito, la casa editrice che aveva fondato a Soave, poi trasformata in rivista culturale online e ora in sito web: «Raccoglie le sei interviste che lo scrittore mi rilasciò fra il 1991 e il 2002, l’anno prima della morte. Un giorno lo vidi acquistare 100 libri in un colpo. Aveva preso un secondo appartamento, sotto quello in cui abitava, per alloggiarvi la sua sterminata biblioteca. Con lui parlavo di tutto».
Ne deduco che la sua balbuzie non era un ostacolo.
Fino ai 40 anni sì, lo era. Smisi di balbettare quando andai in analisi con Fabrizio Scarso e poi con Armando Verdiglione.
Perché cercò gli psicoanalisti?
Ero complessatissimo. Qui dovrei parlare di mio padre.
Sentiamo.
Si chiamava Luigi, veniva da Vigasio. Era stato agricoltore e poi operaio al lanificio Tiberghien. Sposò Noemi Loatelli, mia madre, casalinga di Nogarole Rocca. Tre anni prima che io nascessi, ebbero una figlia, Mariarosa, oggi in pensione. Papà morì a 35 anni, quando io ne avevo appena 3. Dopo l’8 settembre 1943 era stato fatto prigioniero dai tedeschi in Albania ed era tornato a casa con una nefrite cronica. La mamma fu assunta al Tiberghien al posto suo. Non posso avere ricordi precisi di lui. Però la signora Clorinda, che abitava vicino a noi, mi ha raccontato che mi gonfiò di botte perché me l’ero fatta addosso. Da quel giorno divenni balbuziente.
Storia tristissima.
Fu solo l’inizio. Quella che segue non è da meno. Appena perso il padre, mia sorella resta con la mamma mentre io finisco per due anni a San Zeno di Montagna, alla Pontificia opera di assistenza. Il nomadismo diventa la mia vita. Poi mi mandano a Boscochiesanuova, dagli stimmatini, mi pare. Proseguo le elementari dai salesiani a Remedello, nel Bresciano. Esco dal collegio alla fine della terza media. Mia madre vuole iscrivermi al Don Calabria, ma non c’è posto. Allora le chiedo di andare all’istituto Galileo Ferraris. Dopo il diploma, con i presalari frequento Ingegneria all’Università di Padova. Ma sono argento vivo, penso solo alle ragazze e al biliardo. Tartaglio, nessuno mi dà la mia età. Un disagio immenso. Lascio gli studi.
Per fare che cosa?
Come orfano di guerra, ho diritto a un posto. Scelgo l’Associazione nazionale controllo della combustione. Nel frattempo mi capita fra le mani un libro di Irving Stone, Le passioni della mente, la vita romanzata di Sigmund Freud. Mi si apre un mondo. Nel 1977 m’iscrivo a Psicologia, sempre a Padova. In tre anni e mezzo sono pronto per la tesi. Nel 1982 mi laureo con 108: non mi danno 110 e lode solo perché contraddico il relatore durante la discussione. Mi sposo con una napoletana e vado ad abitare nella sua città.
Continua l’erranza.
Dopo sei mesi, non ne posso più. Arrivo a provocare volontariamente piccoli incidenti stradali per segnalarle il mio disagio. Al terzo scontro, con lei seduta al mio fianco, mi dice: «Torniamo a Verona». Qui avevo un’altra donna. Riprendo a vederla per tre anni. Lascio la moglie e inizio l’analisi.
Disagio dovuto a sensi di colpa?
Mi accompagnano da sempre, per tutto. Ne attribuisco la responsabilità a mio padre. Per esempio, da anni sono schiacciato dal peso di aver partecipato alla morte di un carissimo amico, Bernard Hreglich.
Chi era?
Un poeta. Pubblicava con Gallimard, la casa editrice alla quale tutti gli scrittori agognano di approdare. Era affetto da paralisi progressiva. Se n’è andato nel 1996. Un ciel élémentaire vinse il premio Mallarmé. Autant dire jamais, tanto valeva dire mai, l’ultimo suo libro, è un messaggio di morte. Doveva venire a cena da me. Invece va a comprarsi una pistola e si spara. Era Natale. Lo tengono sedato in ospedale per sei mesi. Lo rivedo a luglio. Gli avevano amputato tutte le dita delle mani e dei piedi per la cancrena. Era felice di vedermi. Lo invito a pranzo. «Facciamo questo sabato?», mi chiede. Io avevo un impegno. Combiniamo per il sabato successivo. Dopo qualche giorno mi telefona: «Ti dispiace se ci vediamo un’altra volta?». Quel sabato va in campagna, la domenica torna, ingolla un intero flacone di Prozac e muore.
Triste. Ma lei che c’entra, scusi?
Mi rimprovero: non dovevi mollare quell’appuntamento! Un’amica, anche lei psicoanalista, ha cercato di consolarmi: «Non è colpa tua, la paralisi era galoppante». Ma questo peso è come la paura: nessuno te lo può togliere. Infatti non riesco a concludere il libro che da anni sto scrivendo su Bernard. Finirlo vorrebbe dire pagare il debito che ho con lui.
La signora che mi ha accolto è la sua seconda moglie?
Sì, Christiane Apprieux. Il cognome viene dal verbo «pregare». Siamo insieme da 35 anni. L’ho sposata. Corregge i miei saggi in francese.
Perché lasciò l’Italia?
Nel 1984 avevo investito tutti i miei risparmi nella Fondazione Armando Verdiglione, entrandovi come socio. Parliamo di 60 milioni di lire. Mi ero rovinato economicamente.
Che cosa la spinse a farlo?
Era la mia vita e lo è ancora: una certa apertura, una certa edizione, una certa ricerca. Non era standard, come non lo ero io.
Come mai scelse Parigi?
Jacques Lacan. Lo psicoanalista. L’intellettuale che m’interessava di più. Anche se Verdiglione, che aveva una seconda casa nella capitale francese, durante l’analisi mi fece notare: «Scelse Parigi perché là poteva incontrarmi». Là conobbi anche Jean Daniel, fondatore del Nouvel Observateur, e pubblicai la rivista L’Altra Italia.
Quanto tempo rimase in Francia?
Tredici anni. Tornai nel 1997, per organizzare la cucina della Villa San Carlo Borromeo di Senago, dove Verdiglione aveva aperto l’Università del Secondo Rinascimento.
Come lo aveva conosciuto?
Compravo i suoi saggi nella libreria di Giorgio Bertani. Doveva parlare a Verona, in Sala Nervi, ma rimase bloccato a Parigi. Lo incontrai alla successiva conferenza, a Padova.
E che impressione ne ebbe?
È un’altra cosa. Non è filosofia, non è teologia, non è sociologia, non è psicologia, non è antropologia. È un ricercatore. È entrato dove non era ancora arrivato nessuno.
Come valuta le sue disavventure giudiziarie per circonvenzione d’incapace, truffa, estorsione, evasione fiscale?
Al 99 per cento è innocente. Poi vi è un 1 per cento di responsabilità non penali.
Da quanto tempo non lo vede?
Dal 2017. Non sono dei suoi, ma non lo sconfesso.
Che cosa le ha lasciato?
Il lusso dell’intelligenza. Il lusso del superfluo. Il lusso della rimozione. Il lusso dello zero. Il lusso dell’altro. Il lusso del tempo. Il lusso della relazione.
Non il lusso della cifrematica? Che poi, da quando intervistai Verdiglione, devo ancora capire in che cosa consista di preciso questa sua invenzione.
È la scienza della parola, inseguita da filosofi e teologi.
Lei dove ha esercitato come psicoanalista?
Qui a Verona, nel 1984, per circa un anno e mezzo. Casi interessanti. Una giovane balbuziente di Villafranca che capì al volo di trovarsi davanti a uno psicoanalista reduce dal suo stesso handicap. Un direttore editoriale della Mondadori. Una commerciante di biancheria intima che soffriva perché non poteva stare nelle mutande delle altre, avrebbe voluto indossare tutto ciò che vendeva. Un laureato in psicologia costretto a fare l’impiegato in Comune. Un diciottenne diagnosticato schizofrenico: era convinto che le professoresse del liceo parlassero al posto suo, lo avessero esautorato sostituendosi a lui. Finì con una telefonata della madre nella mia segreteria telefonica: «Mio figlio non verrà più da lei».
Dall’analisi ha capito qual era l’origine della sua balbuzie?
Quando è stato ucciso il padre, il fantasma di cui parla Freud, il balbuziente c’era. Magari ha solo guardato o pulito il coltello, però ha partecipato. Poi ha cancellato questo evento. Ma si sente responsabile di ciò che non ha fatto. Crede che tutti stiano per smascherarlo. Perciò balbetta: non può dire chi è. Per lui ogni uomo è un criminale, ogni donna una puttana.
Addirittura.
Tenga presente che andai a tenere una conferenza a Tokyo, a un congresso internazionale sulla sessualità, parola che a quel tempo neppure esisteva nel dizionario giapponese.
Ma la psicoanalisi non è una confessione con la parcella al posto dell’assoluzione?
No, non c’entra nulla con il sacramento. Non sostituisce il prete. Se lo fa, significa che è psicoterapia. Tutt’altra cosa.
Com’è diventato chef?
Ho imparato a impastare gli gnocchi da mia madre. Poi ho conosciuto Pierino Masini, figlio di Franco, il titolare della Gama di San Giovanni Lupatoto. Frequentavamo il bar Gialloblù, vicino al vecchio stadio Bentegodi appena demolito. E da lì in avanti mi sono specializzato. Nelle sarde in saór metto la stessa cura con cui faccio la crema millefoglie al cremoso delle fave di Tonka.
Ha mai avuto un ristorante suo?
Con un cugino avevo aperto La Bastia a Lazise. Lui ci ha messo i soldi, io le mani. Abbiamo rotto dopo sei mesi. Nel giro di un anno era già chiuso.
E da lì in poi che ha fatto?
Sono stato capo degli chef della Boscolo hotels, che avrebbe voluto affidarmi il Leon d’oro di Verona. Per otto anni ho vissuto in Trentino, prima al Biohotel di Bedollo e poi al Dolomiti Cozzio, a Madonna di Campiglio. Ho lavorato in vari ristoranti: allo Scalzino in vicolo Scalzi, al Parsifal e all’Amleto di Soave, alla Vecchia Polveriera di Sommacampagna. Fino a diventare formatore di chef.
Di chi, per esempio?
Del giapponese Yoshitaka. Ci ho aggiunto Hiko per farne lo pseudonimo con cui firmo le opere d’arte. Ha lavorato con me anche al sito Transfinito.it. Siccome ospitavo gli articoli di molti ebrei, i terroristi islamici me lo hanno piratato, mettendomi sulla home page uno scheletro che danzava, con la scritta «La sicurezza è un’illusione», in inglese.
Il cioccolatissimo come nacque?
Nel 1992, mentre ero chef al ristorante Villa Toscana di Parigi: cacao 60 per cento, burro di cacao 38 per cento, et voilà! Il cuore fondente del tortino. Tornai a Verona per brevettarlo, ma alla Camera di commercio mi spiegarono che non è possibile farlo per una ricetta: basta che un concorrente tolga 1 grammo, e già ti ha fregato.
Poteva depositare il nome.
Costava 400.000 lire l’anno. Sono generoso: alla fine capii che era meglio insegnare a tutti come si fa. E così Miko, la Algida francese, lanciò il cornetto Chocolatissimo.
Ha qualche erede illustre?
No, di valore. Francesco De Maio, mio allievo al Cinecittà Cafè di Parigi, oggi chef negli Stati Uniti, mi ha citato come suo maestro, mettendomi alla pari con Gualtiero Marchesi. Idem Andrea Borelli, chef alla Taverna Lucifero di Roma, specializzata in tartufi.
Che mi dice dei cuochi che spadellano in tv da mattina a sera?
La negazione della cucina.
Non le pare che la nostra sia una civiltà gastrica?
Certo che lo è.
Søren Kierkegaard aveva capito tutto: «La nave ormai è in mano al cuoco di bordo. Ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma quello che mangeremo domani».
Il corollario della legge del ventre. Infatti i politici oggi parlano alla pancia dei cittadini.
Un erede vero, un figlio, non le manca?
L’avrei tanto voluto, ma non è mai arrivato. Un luminare, docente universitario a Verona, il più bravo, il più costoso, dopo aver accertato che eravamo entrambi fertili, consigliò alla mia prima moglie e a me: «Fate una crociera». Non la facemmo e da quel giorno lo declassai a lampadario.
Ci ha riprovato con Christiane?
Certo. Una suite di aborti spontanei. Rimase incinta tre volte, l’ultima di due gemelli. Uno morì al primo mese di gravidanza, l’altro al quinto. Fui io ad accorgermi della tragedia che si era consumata. Smettemmo d’insistere.