La Stampa, 4 gennaio 2021
Biografia di Dino De Laurentiis
«Se andassi in pensione e stessi seduto in poltrona, morirei subito. Per me vale la regola delle tre C: finché c’è il cervello, il cuore e i coglioni, vado avanti». Parlava in maniera spiccia, Dino De Laurentiis, a volte anche brutale, ma sapeva ascoltare come nessuno. Aveva già 80 anni, quando lo incontrai per la prima volta nel suo ufficio negli Universal Studios. Rimasi colpito dalla facilità con cui mi aveva fissato l’incontro e dall’approccio assolutamente informale, ma disse subito «il suo progetto non mi interessa». Voleva conoscermi, però, come faceva con tutte le persone che gli proponevano qualcosa: la curiosità e la straordinaria intelligenza fattiva erano gli elementi che gli davano un’energia impressionante. Era di statura piccola e di enorme carisma: gli occhi erano penetranti, e le sopracciglia, foltissime e arcuate, gli davano un aspetto severo, che a volte si scioglieva all’improvviso in una risata calda, meridionale. Era rimasto un uomo del Sud, nonostante fosse naturalizzato americano da molti anni: lo vedevi da come parlava l’inglese con cadenza napoletana, storpiando spesso le parole.
Frequentandolo, il Sud lo ritrovavi ovunque: nella sua splendida villa a Beverly Crest, che era appartenuta a Joseph Kennedy, si mangiava rigorosamente cucina napoletana per mano del cuoco Gigi, che aveva portato con sé dall’Italia dopo aver assaggiato la sua pastiera. Questo gigante del cinema mondiale era nato a Torre Annunziata con il nome di Agostino in una famiglia di pastai: da ragazzo vendeva spaghetti per le strade, e la leggenda dice che sia stato tra coloro che hanno avuto l’idea di vendere ai turisti l’acqua di Capri in una boccetta. Quando glielo chiesi mi rispose con un sorriso, e aggiunse: «Da quando mi sono trasferito in America, per molti anni ho passato le vacanze a Martha’s Vineyard: non c’è dubbio che sia un bel posto, ma poi, quando sono tornato per la prima volta a Capri, mi sono reso conto che era un’altra galassia».
Dino scoprì la passione per il cinema da piccolo e si iscrisse al Centro Sperimentale di Cinematografia con l’intento di diventare attore. Interpretò qualche film, ma capì presto che il suo talento era altrove. Iniziò a lavorare come produttore con l’amatissimo fratello maggiore Luigi, pensando subito in grande. Ha prodotto alcuni dei più bei film italiani di tutti tempi, e durante la lavorazione di Riso amaro si innamorò di Silvana Mangano, che sposò e dalla quale ebbe quattro figli. Il loro matrimonio ha avuto molti momenti felici, ma anche dure incomprensioni e dolori terribili, come la morte, in un incidente, dell’unico figlio maschio Federico. Questa tragedia mise definitivamente in crisi il matrimonio: la Mangano precipitò in una profonda depressione, e poi morì travolta dallo strazio.
Un sodalizio estremamente importante nella prima parte della carriera di De Laurentiis è stato quello con Carlo Ponti, con il quale ha realizzato, tra gli altri, Europa 51 e L’oro di Napoli. In quegli stessi anni valorizza il genio di Federico Fellini, di cui produce due capolavori che vinceranno altrettanti Oscar: La strada e Le notti di Cabiria. Pensare sempre in grande lo portò a fondare Dinocittà, gli studi cinematografici dove realizzò colossal come La Bibbia, Waterloo e Guerra e pace. Dino sfruttò con grande abilità la legge che consentiva di ottenere finanziamenti pubblici per film che fossero almeno al 50% italiani, e quando nel 1970 venne approvata la legge Corona, che alzava la soglia al 100%, reagì trasferendosi negli Stati Uniti, dove affrontò senza timore l’industria hollywoodiana, giocando alla pari con i più grandi mogul: tra i primi film che produsse, Serpico e I tre giorni del condor. «È fondamentale capire chi sono i registi più importanti e le grandi star da scritturare, ma non esisterà mai un bel film senza una grande sceneggiatura»: me lo disse riferendosi probabilmente al progetto che mi aveva appena bocciato.
Buona parte dei 150 film che ha prodotto sono realizzati in America, dove aprì anche un raffinatissimo negozio di gastronomia con le sue iniziali DDL, nel quale serviva la pastiera con la ricetta di Gigi. È stato Dino a scoprire Arnold Schwarzenegger, a cui affidò il ruolo da protagonista in Conan il barbaro, come anche Jessica Lange in King Kong, e sin dagli inizi dell’avventura americana ha lavorato con le più grandi star hollywoodiane, come Mel Gibson, Madonna, Liam Neeson e Daniel Day-Lewis. Non sono mancati i disastri commerciali quali Dune, ma il grande intuito lo ha portato a scommettere su David Lynch, che girò per lui anche Velluto blu, e a tentare di rilanciare la carriera di Michael Cimino a cui affidò L’anno del dragone e Ore disperate.
Pochi anni dopo la morte di Silvana Mangano, sposò la splendida Martha Schumacher, da cui ebbe due figlie. È lei che oggi gestisce, brillantemente, la casa di produzione: l’ha voluta sempre al suo fianco, e con lei ha scelto di passare le ultime estati nella sua Capri, assieme al nipote Aurelio che continua con successo la tradizione familiare. Era commosso quando l’Academy gli tributò l’Oscar alla carriera, ma negli ultimi anni parlava sempre più spesso del cinema italiano, condannato secondo lui dal fatto che «i nostri registi pensano alla critica e non al pubblico, o realizzano film di interesse nazionale che non dicono nulla fuori dei confini italiani». L’ultima volta che l’ho incontrato gli ho chiesto quale fosse il più grande attore con cui avesse lavorato. Mi rispose con un tono che non ammetteva discussione: «Totò».