La Stampa, 4 gennaio 2021
L’Italia lascia soli gli interpreti afghani
«Povero Gennaro, mio fedele e valido interprete, amico di tante missioni il cui dolore per la triste scomparsa porto dentro di me, come una ferita profonda». Così un militare italiano di stanza in Afghanistan ricorda Abdul Rasool Ghazizadeh, ucciso nel 2017 mentre rientrava a casa da una banda taleban. La sua condanna a morte era stata decisa perché collaborava con i militari che operano ad Herat. I carabinieri lo chiamavano "Gennaro" uno dei nomi tipici che vengono dati agli «amici del posto». Di coraggiosi afghani come Gennaro ce ne sono stati tanti in quasi venti anni di missione iniziata all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001. E quelli rimasti stanno vivendo il peggiore degli incubi, ora che si profila il ritiro del contingente: «Il destino che ci attende è lo stesso di Gennaro se ci abbandonate qui».
«Siamo stati al fianco delle forze italiane nei momenti più difficili e nelle aree più impervie dell’Afghanistan occidentale. Non dimenticatevi di noi». L’appello arriva dai 50 interpreti che lavorano fianco a fianco con gli italiani. Un lavoro altamente rischioso retribuito con 4,5 dollari l’ora, ma soprattutto con la garanzia di vivere un futuro migliore al riparo dalla continua minaccia dei tagliagola taleban che li considerano «spie degli infedeli». L’appello è contenuto nella lettera inviata il 10 dicembre al generale Alberto Vezzoli, comandante del contingente di 700 uomini in via di richiamo. E giunge in risposta alle notifiche di licenziamento ricevute proprio dagli interpreti a partire dal 28 novembre in cui non viene menzionato nessun piano per garantire la loro sicurezza, in parte applicato in passato con l’accoglienza in Italia per loro e le rispettive famiglie.
La lettera di licenziamento firmata dal generale Vezzoli parla chiaro: i contratti di 11 interpreti afghani sono scaduti il 31 dicembre. Altri 38 rischiano la stessa sorte. Metà di loro saranno sospesi per due mesi (gennaio e febbraio) senza paga e forse avrà un contratto in marzo. Altri sette a Kabul sono in situazioni simili. A loro niente è dovuto come si evincerebbe dalla lettera di fine rapporto: «Si evidenzia, altresì, che non sussistono ritardi, pendenze né alcun tipo di inosservanza e/o inadempimento da entrambe le parti in ordine ai termini di esecuzione e alle clausole contrattuali stipulate e che ogni prestazione è stata saldata secondo quanto previsto dal contratto in oggetto».
Una risoluzione motivata per altro da «esigenze di sicurezza dovute all’emergenza sanitaria Covid-19». E questo nonostante che il predecessore di Vezzoli, il generale Enrico Barduani «avesse dato garanzie a non lasciarci soli», puntualizzano gli interpreti.
Una situazione già vissuta alcuni anni fa quando la missione "Isaf" si trasformò in "Resolute Support" col conseguente ritiro di una parte del contingente. In quel caso la mobilitazione mediatica spinse l’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti a dare il via libera all’accoglienza di 117 collaboratori tagliandone fuori 35 per cavilli burocratici.
Una legge quindi c’è e il governo giallo-rosso ha garantito da parte sua che «è allo studio un nuovo programma di protezione», ma sembra che non siano stati previsti i fondi necessari nel decreto missioni. «È una questione di sicurezza per i nostri collaboratori afghani ma anche di credibilità del nostro Paese, una volta che si perde recuperarla non è facile - spiega a La Stampa il generale Giorgio Battisti, già capo del contingente italiano Isaf ed ex comandante della Brigata Taurinense -. Sono convinto però che il governo, avendo ora preso coscienza del problema, si darà da fare per recuperare la situazione».