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 2021  gennaio 04 Lunedì calendario

La fusione Fca-Psa e lo stato del capitalismo familiare

Con loro, come con altri, i pianeti potrebbero essere allineati». Sono trascorsi meno di due anni dalla prudentissima ma chiara ammissione di Robert Peugeot su una possibile alleanza con Fca, e più di due secoli da quando il mulino ad acqua ereditato dai fratelli Jean Pierre et Jean Frédéric Peugeot a Sous-Cratet venne trasformato in fonderia d’acciaio, ed ecco che stamani quei pianeti si allineano davvero in una combinazione che – potenza delle evocazioni astronomiche – si chiamerà Stellantis. Sulla scena della fusione dell’anno ci sono i numeri e i bilanci, anche quelli di potere: il fatturato di 180 miliardi di euro, il quarto posto nella classifica mondiale dei costruttori con 8,7 milioni di auto, il ruolo di amministratore delegato per Carlos Tavares che oggi fa lo stesso lavoro in Psa e quello di presidente per John Elkann, attualmente al vertice di Fca e della finanziaria di controllo Exor (che controlla anche Gedi, il gruppo che edita La Repubblica), Exor azionista di maggioranza relativa e i francesi che ottengono sei posti su undici in consiglio. Ma dietro l’operazione c’è anche, e forse soprattutto, una storia di impresa comune tra due dinastie industriali che non appartiene solo a loro, ma si lega in modo stretto alle vicende dei Paesi di origine, un modello che affonda le sue radici nel Novecento, un’impronta europea che punta ad affermarsi anche fuori dai propri confini.
Così la fusione che verrà votata oggi dalle assemblee dei due gruppi, dopo che a metà 2019 una prima proposta di Psa di rilevare semplicemente Fca era stata rifiutata dallo stesso Elkann, impegnato nelle trattative con Robert Peugeot – è anche un riconoscimento delle origini comuni: del resto quattrocentocinquanta chilometri appena dividono il primo stabilimento della Fiat in Corso Dante, a Torino e l’omologo francese di Audincourt. Territori non dissimili, prossimi alle Alpi dove l’acqua che scende dalle montagne ha spinto per secoli in modo impetuoso l’industrializzazione, e abbastanza vicini alla Svizzera protestante da subirne in qualche modo l’influenza. E storie parallele di chi all’epoca scommette sull’innovazione: da una parte quella che nel 1810 nasce nella fonderia di famiglia come fabbrica di forbici e poi di macinini da caffè, stecche per busti e utensili vari a marchio Peugeot, per poi fare il salto nella produzione delle prime automobili in serie – 64 esemplari della Type 3 nel 1891 – dar vita grazie ad Armand Peugeot a una specifica Société Anonyme des Automobiles Peugeot nel 1896, e che oggi è il gruppo Psa. Dall’altra, nella sua orbita finora distinta, la Fabbrica italiana automobili (a cui si aggiungerà poco dopo la parola Torino), battezzata ufficialmente a Palazzo Bricherasio, pieno centro del capoluogo piemontese, nel luglio 1899 da un gruppo di nobili e imprenditori, con il possidente Giovanni Agnelli che subentra all’ultimo momento a un socio rinunciatario, e che nel XXI secolo si trasformerà in Fca.
È anche, in qualche modo e in parte, il segno di vitalità di un ormai antico capitalismo familiare, spesso dato per finito, contro la danza vertiginosa dei capitali senza bandiera e dei manager senza azionisti di riferimento. Imprese legate a quelle che sono dinastie industriali riconosciute, e come tali spesso anche contestate. In Francia il marchio che è il nome della famiglia è pervasivo: il simbolo del leone rampante balza dal macinapepe in tavola fino alla bicicletta, per arrivare alla berlina 404 (primo modello disegnato per Peugeot da Pininfarina, altro legame a cavallo delle Alpi) che la borghesia degli Anni ’70 tiene in garage. Pervasivo ma divisivo. Quando partono i moti del ’68 francese è proprio alla Peugeot de Sochaux-Montbéliard, l’11 giugno, che si registra uno dei bilanci più duri: due operai morti e 150 feriti, molti di loro amputati, sotto le cariche della polizia di fronte alle proteste per i tempi di lavoro, il Circolo Peugeot messo a ferro e fuoco. In Italia il percorso è noto e per molti versi simile. Le quattro lettere legate alla dinastia Agnelli sono prima avamposto dell’industrializzazione di un Paese ancora in prevalenza rurale, poi della motorizzazione di massa e del boom economico degli Anni ’60, polo di attrazione dell’ondata migratoria dal Sud e dell’inurbamento, ovvio bersaglio della contestazione operaia (“Agnelli e Pirelli, ladri gemelli”) al principio degli Anni ’70, con l’appendice lunga e sanguinaria del terrorismo nelle fabbriche del gruppo. Decenni segnati dalla presenza alla guida di Giovanni Agnelli, l’Avvocato nipote del fondatore, che al ruolo di capitano d’azienda affianca anche l’aspetto iconico di italiano globale e globalmente celebre ben prima che la parola entri nei manuali di economia. Le famiglie stanno sopra le imprese, ma con esse si identificano: otto generazioni finora per i Peugeot, mentre in casa Agnelli è al lavoro la quinta generazione. Formule simili anche per quel che riguarda la gestione di dinastie che ormai si allargano in modo esponenziale: un’accomandita di famiglia che conta in entrambi i casi un centinaio di azionisti tra i vari rami, la scelta di delegare a uno di loro il ruolo di presidente – John Elkann in Italia, mentre Robert Peugeot guida in Francia la holding Ffp che è controllata appunto dai parenti – e di affidarsi (non sempre con facilità) a manager esterni per cercare di non confondere i ruoli di azionista e di gestore. In Italia i nomi che restano nella memoria collettiva sono quelli di Vittorio Valletta, che da direttore generale, ad e presidente guiderà il gruppo per 45 anni fino all’arrivo dell’Avvocato al comando nel ’66, di Cesare Romiti e ovviamente di Sergio Marchionne. Tra i manager francesi è forse l’ultimo, Carlo Tavares, quello di maggior fama.
Non sono storie senza cicatrici, come è ovvio. Quelle personali – in casa Agnelli le più recenti restano il suicidio di Edoardo, figlio di Giovanni Agnelli, e la morte per un tumore di Giovannino, primogenito di Umberto – e quelle societarie che inevitabilmente si intrecciano anche con le vicende familiari. I Peugeot che si ritrovano nel 2002 a fare i conti con la morte dell’allora patriarca Pierre senza che questi abbia designato il successore si ritrovano in uno scontro casalingo: da un lato il figlio di Pierre, Thierry, che punta alla presidenza del consiglio di sorveglianza, dall’altro suo cugino Robert che vuole lo stesso posto. La spunterà Thierry, anche grazie a un movimento interno della famiglia graziosamente ribattezzato “Tsr”, “Tutti salvo Robert”, che relega – si fa per dire – il cugino alla testa della holding di famiglia. Ma sotto la guida di Thierry la Peugeot, che nei decenni precedenti ha preso anche il controllo della Citrõen, perde il treno della globalizzazione: offerte di vendita rifiutate, possibili alleanze, anche con Fiat, cestinate. Nel febbraio 2014, di fronte alla necessità di una ricapitalizzazione entrano lo Stato francese e i cinesi di Dongfeng e la famiglia si trova accanto nuovi e ingombranti soci.Anche la Fiat, nel corso dei decenni, viene data più volte per finita. Con l’impegno di Sergio Marchionne e l’opportunità che si apre dopo la grande crisi globale del 2009, quando l’Amministrazione Obama accetta la scommessa di quell’italocanadese che si lancia a rilevare la Chrysler e nel 2014 nasce Fiat Chrysler Automobiles. Critiche di chi afferma che il gruppo e la famiglia lasciano in questo modo l’Italia – anche a causa del trasferimento della sede legale ad Amsterdam – plauso da parte di chi vede la mossa della globalizzazione non solo come obbligata, ma anche favorevole all’interesse delle fabbriche italiane e dei loro lavoratori. Adesso le due dinastie della “vecchia” Europa portano di nuovo la sfida oltre i loro confini, geografici e tecnologici, sapendo che quando tutto attorno si muove rapidamente, il recinto delle abitudini consolidate è il posto dove si rischia di soccombere peggio e prima.
Per questo ci si esercita sui vantaggi combinatori della nuova alleanza: Fca aiuterà i francesi sul mercato statunitense, dove specie grazie a Jeep ha acquisito una presenza consolidata, e su quello brasiliano. Psa apre ai nuovi soci le porte di un mercato asiatico dove si è già affacciata e soprattutto offre la sua tecnologia nell’auto elettrica. Non è un caso che tra le mosse decisive per suggellare l’alleanza che John Elkann e Robert Peugeot hanno trattato personalmente, ci sia – come spiega il prospetto di 714 pagine – la visita dell’ad di Fca Mike Manley al centro di ricerca de La Ferté-Vidame, dove Tavares lo ha invitato per testare le tecnologie Psa nelle batterie al litio-ionio da utilizzare nelle auto elettriche e ibride. Ma sarà questo il futuro che i costruttori europei non vogliono perdere? Sabato scorso, una manciata di ore prima delle assemblee di stamani, la Tesla di Elon Musk ha annunciato ottimi risultati per l’ultimo trimestre del 2020, chiudendo l’anno con 499.550 auto elettriche vendute: un soffio appena dalla previsione del mezzo milione di auto che nemmeno la crisi del coronavirus è riuscita a scalfire. L’inventore- imprenditore sudafricano che ha trovato casa negli Usa è il profeta di una rivoluzione annunciata che lo scorso anno ha spinto i mercati azionari a moltiplicare per otto il valore delle sue azioni senza che Tesla abbia mai chiuso un bilancio in attivo. Che quella di Tesla sia una meteora di certo non si può più dire. Che attorno al motore elettrico si crei un nuovo sistema solare è ancora presto per affermarlo. Valgono per tutti i dubbi del signor Akio Toyoda (un’altra dinastia, un altro impero dell’auto) che con la sua Toyota è assai avanti sui motori ibridi ma anche molto dubbioso sulle effettive capacità dei motori esclusivamente elettrici di mantenere un costo accettabile per le classi medie di oggi e di domani e di ridurre efficacemente le emissioni di anidride carbonica. Il Big Bang, insomma non è certo, ma intanto nella galassia europea i pianeti si allineano.