Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2021
32QQAFM40 Reliquiario di Nick Cave
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Come prendere Nick Cave, rockstar underground venuto dall’outback, ed evolutosi in chansonnier dolente e formidabile performer? Sulla copertina di Stranger than kindness, librone illustrato (il Saggiatore), nato da una mostra a Copenhagen, il pittore Ben Smith interpreta Nick Cave mentre prende in braccio un se stesso più giovane e come una madre amorevole lo fa sedere sulle ginocchia. È un modo di cullarsi, di esibirsi, di autoesaltarsi? Dopo le barf bags (i sacchetti da vomito con poesie, questi pubblicati da Bompiani) e la carta da parati erotica basata sui suoi disegnini che vende sul sito Cave Things, questo libro sembra il trionfo di un’idea: che Nick Cave, un grande artista, provenga da un mondo immaginario di tale fascino che ogni detrito che si lascia dietro – santini, ciocche di capelli, vecchi scarabocchi – meriti di essere raccolto e curato, senza aspettare di defungere perché lo possano fare altri, magari con meno amore e a beneficio altrui.
Nick Cave curatore di se stesso dunque, apre con un se stesso sceriffo, nel 1960 a tre anni, nella sua Warracknabeal, paesino nel grano australiano, a 330 km da Melbourne. Lolita di Vladimir Nabokov compare subito dopo la foto del padre: è la prima opera d’arte che lo folgora; una cartolina d’auguri natalizi dal coro delle voci bianche di Wangarratta, cittadina rurale, sempre lontana da tutto, dove il nostro, trascorse un’infanzia edenica, membro del coro e dunque esposto alle storie della Bibbia, dimensione narrativa che lo plasma. Da qui al 1975, e alla Grammar School a Caulfield, sobborgo di Melbourne dove il giovane Nicholas studia arte e pittura, è un attimo: già è su un palco a imitare il suo idolo David Bowie; e già il rettore della scuola scrive una lettera – qui esibita – a papà Cave per ammonirlo su una germogliante fase di ribellione del figlio. Per Nick è invece un ambiente di «giovani artisti pieni di idee»; va ai live dei Saints, punk rocker australiani di “Stranded”, precursori dai Clash, che gli mostrano la strada. Le sue prime band, i Boys next door; e poi a Londra i Birthday Party. Quando si dice: di xyz pubblicano tutto, perfino..., ecco: c’è pure la lista della spesa (nella sottocategoria libri, era previsto anche un decent dictionary).
Varie liste (un po’ Perec style) e liriche cavernose dopo (testimonianza della transizione di Cave dagli autodistrutti Birthday Party ai Bad Seeds, band di cui è leader univoco), ecco un intermezzo riflessivo: il saggio God is in the house dell’autrice americana Darcey Steinke, che con il festeggiato qui condivide passionaccia rock e tendenza a unire il mistico al carnale. Si evocano demoni e angeli di Cave: un William Faulkner dalla prosa «atavica, ricca, eccentrica e fantasiosa» e un senso di appartenenza alle paludi del Mississippi, un’inclinazione per anime dannate dall’oltretomba che rivivono attraverso blues e rock’n’roll.
Sull’asse Gesù-Elvis si gioca la redenzione dello stesso Nick Cave; in un mondo di mostri e murder ballads, quella del narratore/predicatore è una funzione catartica, da lume nella darkness e, insieme, il cammino; ciò che avvicina diverse canzoni di Cave (I let love in; Song of Joy) a salmi. Del resto, tra gli scritti di Cave raccolti nel suo sito, non manca la sua introduzione al Vangelo secondo Marco, in cui quello che viene infine inchiodato è un Gesù errabondo e cangiante come l’Uomo.
E dopo il 2015, anno della morte accidentale di suo figlio Arthur, un Cave privo della furia precedente, sbigottito, rimane a interrogarsi su angeli (come quelli incontrati sul palco nel 1987 del Cielo sopra Berlino di Wim Wenders) e distant skies. Fino a muoversi (come nell’ultimo album Ghosteen) quasi a cavallo dei due mondi, la terra desolata e un mondo prossimo da sognare. Ed è in questo scavalcamento di universi, in questo “stato intermedio” – conclude Steinke – che l’artista Cave può trovare una sua definitiva seppure instabile collocazione. In tal senso, l’intero volume si pone come reliquiario.
Tra le reliquie: foglietti scritti con il sangue, scatole di audiocassette, cartoline e statuine, manoscritti sporchi e dizionari decenti, ancorché tenuti insieme con lo scotch, o addirittura compilati a mano (ne vediamo una doppia pagina: da anathema a autarchy), vangeli sottolineati e madonne-sirene donne nude, tante, angeliche, sconce. Santini raccolti a Berlino, ciocche di capelli, dattilo e manoscritti, liriche sparse (dopo le prime 150 pagine ci si può annoiare un po’), quella Red Right Hand cara ai seguaci della serie Peaky Blinders; e poi la donna-pietra miliare che lo fa virare verso il modello “siete una coppia stupenda”: Susie Bick. Da lì in poi Nick tiene diari sul tempo, si fa crescere dei baffoni e svacanza in Tuscia. La realtà è più complicata; ma preferiamo riservare ogni residuo feticismo al Nick Cave performer, all’ascolto del recente album live, Idiot Prayer, selezione diacronica delle sue canzoni, da lui eseguite nude e crude in versione piano solo in un deserto Alexandra Palace, scrigno vittoriano di Londra. Una preghiera nel vuoto, finalmente messa in musica.