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 2021  gennaio 03 Domenica calendario

A colloquio con lo storico François Hartog

François Hartog è uno dei più influenti intellettuali europei. Normalista, allievo di Jean-Pierre Vernant e assistente di Reinhart Koselleck, è direttore di studi emerito presso l’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi. 
I suoi lavori sulla storia intellettuale della Grecia antica (Lo specchio di Erodoto, Il Saggiatore, 1992; Memoria di Ulisse, Einaudi, 2002) e sulla trasformazione delle forme storiche in relazione al tempo sono considerati fondamentali. Il suo saggio Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo (uscito nel 2003 e tradotto da Sellerio nel 2007) ha imposto il “presentismo” come categoria decisiva per comprendere e contestualizzare l’esperienza della contemporaneità. 
È stato appena pubblicato nella Bibliothèque des Histoires di Gallimard il suo Chronos. L’Occident aux prises avec les Temps, un’affascinante ricostruzione della storia culturale del tempo in Occidente. 
Gli abbiamo chiesto di parlarcene, a partire dal significato del sottotitolo. «In Chronos, come già ho fatto in Regimi di storicità – sostiene Hartog – cerco di analizzare la condizione contemporanea. Quali sono le nostre esperienze del tempo, oggi? Per capirlo, credo che occorra partire da lontano, dal modo in cui si è formato e imposto, nel corso di alcuni secoli, il tempo cristiano. Questo quadro e questo orizzonte temporale hanno dominato in Europa fino al XVIII secolo». Il tempo cristiano è la risultante di alcuni elementi ben precisi, va avanti Hartog, «è il prodotto del recupero e della riconfigurazione di tre concetti greci che sono stati utilizzati anzitutto dai traduttori della Bibbia in greco, poi adottati e adattati dai primi cristiani: Chronos, il tempo ordinario; Kairos, l’occasione, il momento decisivo; Krisis, il giudizio, ma anche i giorni critici di una malattia. Chronos resta il tempo ordinario, Kairos indica l’evento centrale dell’Incarnazione e Krisisil momento terminale dell’apocalisse e del Giudizio finale. Fra l’Incarnazione e il Giudizio non c’è che un presente privo di effettiva consistenza. Di qui la mia proposta di definire il tempo cristiano nella sua prima formulazione come un presentismo apocalittico: un modo del tutto originale di costruire un tempo nuovo. In Cina, in India e in altre società le cose sono andate assai diversamente. È ciò che intende il sottotitolo: l’Occidente perimetra un confine culturale». Poi, però, si consuma il passaggio graduale a un tempo diverso, che ci è più familiare. «Finché non emerge un tempo in senso moderno, la storia è quella della liberazione di Chronos che si emancipa progressivamente dai termini posti dall’ordine temporale cristiano. Concepito come processo, sostenuto dal progresso, il tempo moderno fa saltare ogni limite, tanto in direzione del passato, quanto dell’avvenire. Il passato della Terra non cessa di arretrare (basti pensare al dibattito sull’età del Diluvio nel Settecento), mentre l’avvenire si prospetta indefinito».
Se Chronos estende il suo impero, Kairos e Krisis tuttavia non scompaiono, ma vengono “riciclati”: lo schema apocalittico, spiega lo storico, resta presente sullo sfondo e riattivabile in caso di guerre: «Ad esempio, Kairos è stato recuperato in particolare per pensare la Rivoluzione francese, mentre Krisis diviene, nel significato forte di Giudizio, un attributo della Storia (il famoso “Tribunale della Storia”), oltre che, nel senso greco di crisi, un concetto centrale della storia economica, sociale e politica. Lo usiamo quotidianamente tuttora».
Chiediamo ad Hartog come questa lettura sia conciliabile col “presentismo”, che è stato al centro delle sue analisi precedenti. «Gli ultimi quaranta o cinquant’anni – ci risponde – sono stati segnati dalla ritirata del futuro e da un’espansione del presente, che ho chiamato “presentismo”: un presente onnipresente che la rivoluzione dell’informazione, con le conseguenti istantaneità e simultaneità, ha considerevolmente rafforzato. È un tratto evidente della globalizzazione. Ma il presentismo non è lo stesso per tutti né ovunque, a seconda che si appartenga ai vincitori della globalizzazione (mobili e flessibili) o agli sconfitti (tutte le persone in una condizione precaria, escluse dal progetto). Ora, questo presentismo è, da non molto, messo in discussione dall’emergere prepotente di un tempo nuovo: quello dell’antropocene. Il termine, rapidamente divenuto familiare, sintetizza il fatto che la specie umana è riconosciuta come una forza “geologica”: essa si trova all’origine di una nuova era della quale è possibile documentare le tracce, la cui più visibile manifestazione è il riscaldamento climatico. Ecco quindi che un tempo che si calcola in milioni di anni è giunto, per così dire, ad agitare la bolla presentista. Di fatto, il tempo della Terra e il tempo del mondo (il tempo moderno, lungo alcuni secoli, che l’Europa ha fabbricato) sono incommensurabili. Di qui conflitti fra temporalità e un disorientamento generale nelle società schiacciate fra due imperativi categorici: il cortissimo e il lunghissimo termine».
Un conflitto visibile anche in alcuni giovani protagonisti della scena mondiale, se si pensa al fenomeno Greta Thunberg. «Sì, s’inscrive in questa temperie. Battendosi per un’azione risoluta a favore di una “giustizia climatica”, accusa le generazioni precedenti di privare la propria dell’avvenire cui ha diritto. Greta inoltre definisce “inazione” tutto ciò che non conduce a trasformazioni immediate, dimostrando con questo, tuttavia, di restare impigliata nella rete concettuale del presentismo». Il rasoio razionale di Hartog non concede nulla ai miti del momento. 
Gli chiediamo infine qualche suggerimento per leggere l’immediato futuro alla luce della crisi (in senso greco, questa volta) del Covid-19. «Il Covid è sempre là, e, ci si dice, dobbiamo conviverci. Ma, rispetto alla primavera scorsa, la situazione è cambiata. Continuiamo a non dominare il tempo del virus, anche se la medicina lo conosce assai meglio. Soprattutto l’arrivo dei vaccini, però, ha creato un orizzonte nuovo: è come se il tempo stesse per rimettersi in cammino. Il virus quindi non dovrebbe più essere quel “padrone del tempo” che di fatto è stato da un anno circa a questa parte».