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 2021  gennaio 03 Domenica calendario

Raffinerie di petrolio travolte dal Covid

Nel mondo industrializzato le raffinerie rischiano di morire ben prima della nostra sete di petrolio, costringendoci ad importare dall’estero quantità crescenti di carburanti. Per fare il pieno alle nostre auto – che ancora per molti anni saranno per la maggior parte dotate di motori a combustione – si candida la Cina, avviata a strappare agli Stati Uniti il primato mondiale della capacità di raffinazione. Ma per l’Europa la sfida maggiore arriva da Paesi che finora ci hanno rifornito di greggio, in particolare l’Arabia Saudita e il Kuwait, dove a breve saranno inaugurati due enormi impianti petrolchimici, destinati proprio alla conquista dei mercati stranieri. Nel frattempo anche la Russia sta favorendo con incentivi statali lo sviluppo delle sue raffinerie, con l’obiettivo di esportare maggiori quantità di benzina e diesel: una strategia forse ispirata anche dall’adesione all’Opec Plus, che impone di tenere a freno la produzione petrolifera, ma sui derivati del greggio lascia le mani libere.
In Italia e nel resto dell’Europa occidentale le difficoltà del settore della raffinazione non sono certo una novità. Ma alle pesanti ristrutturazioni avvenute dopo la crisi del 2008-2009 era seguito un periodo di tregua: dopo il 2015 non c’erano più state chiusure di impianti nel Vecchio continente e ancora all’inizio di quest’anno si respirava un cauto ottimismo, legato in parte alle nuove specifiche per i carburanti navali imposte dagli accordi Imo2020, che si prevedeva potessero ridare impulso al settore. Poi è arrivata la tempesta del Covid. E la speranza è stata spazzata via. 
La pandemia ha inflitto uno shock senza precedenti alle raffinerie di tutto il mondo, che si sono trovate a fronteggiare un crollo dei consumi di carburante mai sperimentato in tempi di pace. La primavera scorsa, quando miliardi di persone erano costrette a casa dai lockdown, la domanda petrolifera globale si è contratta di un quinto nel giro di poco più di un mese. Da allora la ripresa è stata solo parziale, oltre che concentrata soprattutto in Cina. Senza uno sbocco per i prodotti e con margini di raffinazione in caduta libera, addirittura in terreno negativo per alcuni periodi, molti operatori hanno gettato la spugna. 
Nelle economie mature sono già una ventina le raffinerie avviate alla cessazione totale o parziale delle attività, per un totale di quasi 2 milioni di barili al giorno di capacità, stima Citi. La metà delle chiusure è stata annunciata negli Usa, dove il settore a lungo si era illuso di poter resistere ad ogni sfida grazie all’abbondanza di shale oil a basso prezzo. Ma questo è solo l’inizio, avverte la banca: a rischio ci sono altre raffinerie per 1,8 mbg e i prossimi sacfrifici toccheranno soprattutto all’Europa, dove la razionalizzazione procede a passi più lenti che negli Usa per via delle maggiori resistenze politiche e sindacali, ma ormai è difficilmente eludibile.
Altre previsioni sono ancora più pessimiste: entro il 2025 dovrebbero uscire di scena circa 3 mbg di capacità di raffinazione, concordano Ihs Markit, Wood Mackenzie e Rystad Energy. Ad essere condannati sono gli impianti più piccoli, antiquati, inefficienti, o comunque non in grado di reggere la competizione sempre più agguerrita dei nuovi giganti dei Paesi emergenti: complessi petrolchimici integrati di dimensioni enormi, con costi di produzione ridotti all’osso grazie alla tecnologia, alle economie di scala e spesso anche al petrolio “autoprodotto”.
Nei primi mesi del 2021 entreranno in funzione ben due mega impianti che rispondono a questo profilo e che per la posizione geografica sembrano naturalmente destinati ad esportare soprattutto in Europa: si tratta del complesso di Al-Zour, da 615mila bg, che il Kuwait inaugurerà a giorni, e di quello di Jizan, in Arabia Saudita, da 400mila bg. E non è tutto.
In Nigeria nel giro di un paio d’anni dovrebbe essere completato l’impianto di Dangote, da 650mila bg, che da solo promette di eliminare la dipendenza dall’estero dell’intera Africa Occidentale, un mercato ancora importante per gli esportatori europei. 
In Cina nel frattempo è imminente la realizzazione di altre due raffinerie giganti, grazie alle quali il Paese – che ha già una capacità di lavorazione di 17,5 mbg, triplicata dal 2000 a oggi – potrebbe superare gli Usa fin dal prossimo anno, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). Un sorpasso davvero storico.
Negli anni ’60 del secolo scorso, mentre in Occidente l’automobile conquistava le masse, le raffinerie americane avevano una capacità 35 volte superiore a quelle cinesi. Ma oggi è un altro mondo. E non solo perché è arrivato il Covid-19.

La pandemia ha innescato una terribile crisi congiunturale in un settore che nelle economie mature già da tempo non godeva di buona salute a causa di problemi strutturali. I nodi erano comunque destinati ad arrivare al pettine, ma col virus la situazione è precipitata più in fretta del previsto. «La razionalizzazione che sarebbe dovuta avvenire in modo graduale nel prossimo decennio ora verrà compressa nel giro di pochi anni – spiega Rob Smith di Ihs Markit – Quello che ci aspettavamo fosse un lungo e lento aggiustamento è diventato uno shock improvviso». 
L’Aie calcola che nel 2019, prima della pandemia, nel mondo ci fossero impianti di raffinazione capaci di produrre 102 mbg di carburanti a fronte di consumi per 84 mbg. Nel 2020-21 si aggiungeranno 2,4 mbg di nuova capacità (di cui circa la metà in Cina), mentre ci sono chiusure annunciate per soli 1,7 mbg. Nel frattempo i consumi di prodotti raffinati si sono ridotti: dai 76 mbg di quest’anno se tutto va bene risaliremo solo a 80 mbg il prossimo.
Le raffinerie hanno rallentato le lavorazioni il più possibile. Ma dopo aver resistito per mesi alla pandemia molti operatori hanno concluso che non c’è nessuna luce in fondo al tunnel. Anche in Europa si vedono i primi segnali di resa. A maggio Gunvor ha fermato a tempo indefinito l’impianto belga di Anversa, Neste ha annunciato la chiusura a Naantali in Finlandia, mentre in Francia Total ha deciso di convertire Grandpuits alla produzione di biocombustibili: una soluzione che anche Eni punta a replicare dopo le esperienze di Venezia e Gela.
La strada della riconversione green tuttavia non è una panacea universale, avverte Jonathan Leitch della società di consulenza Turner, Mason & Company: «C’è un limite al numero di impianti di questo tipo di cui il mercato ha bisogno».
Che si tratti di carburanti fossili o meno, la domanda nei Paesi industrializzati è destinata a rimanere asfittica. Per ora solo la Cina ha riportato indietro le lancette dell’orologio, eguagliando e poi addirittura sorpassando i livelli di consumo pre Covid. Quasi ovunque la maggior parte degli aerei ancora oggi rimane a terra e anche gli spostamenti in auto, dopo una parentesi di normalità durante l’estate, sono di nuovo rallentati, mentre l’economia globale arranca.
Nonostante l’arrivo dei vaccini è difficile prevedere come evolverà la situazione: al momento l’Aie prevede che nel 2021 il mondo recupererà meno di due terzi degli 8,8 mbg di domanda petrolifera perduta nel 2020. Anche i Paesi industrializzati parteciperanno alla ripresa: in fondo basta che torniamo a volare. Ma questo non basterà a risollevare le sorti delle raffinerie. 
In Europa, così come in Nord America e in Giappone è dal 2007 che la domanda petrolifera ha smesso di crescere e presto il declino potrebbe accentuarsi con la transizione energetica e chissà, forse anche un cambio permanente degli stili di vita dopo l’esperienza del Covid.