la Repubblica, 3 gennaio 2021
I buchi neri della Uno Bianca
I primi colpi sono sembrati petardi, avanzi del Capodanno festeggiato qualche giorno prima. Subito dopo, il silenzio tornato ad avvolgere l’oscurità della periferia bolognese pareva confermarlo. Ma è stata soltanto una pausa. Pochi secondi ed è esploso tutto: un coro dirompente di mitra, pistole, fucili automatici. Una battaglia che ha infranto la notte e spezzato la vita di tre ragazzi con la divisa dei carabinieri. Gli assassini non hanno lasciato tracce: solo il fantasma carbonizzato della vettura con cui sono fuggiti, una Fiat Uno Bianca. Così, in uno stradone del quartiere Pilastro, quel 4 gennaio di trent’anni fa l’Italia intera ha capito che la Banda della Uno Bianca era una questione terribilmente seria.
Ci sono voluti altri quattro anni e altre decine di vittime per venire a capo di quel mistero. Alla fine i killer del Pilastro sono stati riconosciuti responsabili di una lista di delitti che non ha pari nelle cronache nazionali, se non nelle saghe dei corleonesi o in quelle dell’eversione armata: almeno 103 assalti, 24 morti, 102 feriti in una stagione di fuoco che va dal giugno 1987 al novembre 1994. Ma le sentenze hanno sancito che non si trattava di mafia, né di terrorismo.
Una storia semplice
Quella della Uno Bianca è stata archiviata come una storia semplice: i tre fratelli Savi, di cui due poliziotti, e altri tre agenti si sono trasformati in rapinatori. Cinque servitori dello Stato – come si diceva all’epoca – e uno che non è riuscito a diventarlo. Esordiscono derubando un casellante. Poi alzano il tiro e la crudeltà, uccidendo a caso. Il rapporto tra ferocia e bottini si divarica: ammazzano per centomila lire o solo per il gusto di premere il grilletto. Sette anni di piombo tra Bologna e Rimini, con qualche sortita fino a Pesaro, senza mai venire scoperti: un frenetico via vai di sparatorie lungo la via Emilia, che tiene in scacco qualunque indagine. Alla fine, altri due agenti integerrimi e risoluti imboccano la pista giusta e in tre settimane il caso è chiuso. I fratelli spietati e i loro complici vengono presi, con le prove complete per incastrarli.
Hanno fatto tutto loro. Imprendibili supermen del crimine, protetti dalla doppia vita. E, allo stesso tempo, i primi di cui si sarebbe dovuto sospettare. Perché anche se le investigazioni scientifiche erano agli albori, gli esami del Dna primordiali, le analisi dei cellulari una rarità però era chiaro il profilo degli assassini: la familiarità con le armi, la capacità di prevedere i controlli delle forze dell’ordine, l’affiatamento straordinario tra i sicari. Quelli della Uno Bianca hanno terrorizzato un’intera regione godendo di un’impunità eccezionale.
Ma è veramente una storia semplice? Loro sono sicuramente responsabili, oltre ogni ragionevole dubbio. Lo hanno confessato; pur cambiando tante volte versione, plasmando dettagli o adattando circostanze. Non il movente, rimasto identico: lo hanno fatto per soldi. E poco importa se abbiano ucciso per pochi spiccioli o anche senza portare via nulla. Se abbiano fatto saltare in aria uffici postali affollati di pensionati uscendo a mani vuote, seminato cadaveri davanti ai supermercati senza prendere il bottino. I loro reati, come riconosciuto dai processi, sono sempre e solo frutto del desiderio di soldi. Accompagnato da una crudeltà che resta sconvolgente. Ha scritto Libero Gualtieri, il senatore romagnolo che allora presiedeva la Commissione Stragi: «Non hanno mai sparato per aprirsi la strada verso l’obiettivo, né per proteggersi la fuga: sparavano per uccidere, sembra che solo questo importasse loro, più ancora del bottino».
Tra la via Emilia e il West
I protagonisti sono figli di Romagna, cresciuti però nell’ombra di un padre dichiaratamente di estrema destra che li ha educati predicando legge e ordine. Ovvio che cercassero una divisa. Roberto, il primogenito, entra in polizia nel 1976: è un tipo da strada, capopattuglia nei peggiori quartieri di Bologna. Preciso e duro, si fa notare per la scarsa loquacità e lo stile riservato: molti colleghi lo chiamano “il Monaco”. Almeno in un caso perde il controllo: si infuria con uno spacciatore e lo umilia, rasandogli i capelli. L’episodio non passa inosservato e viene trasferito nella sala radio della Questura. Anche il più piccolo, Alberto detto Luca, si arruola subito e resta vicino casa: è al commissariato di Rimini. I fratelli lo trattano con un’aria protettiva come un «cucciolone»: ha modi poco svegli e insicuri. Fabio non supera la selezione per la polizia: viene scartato alla visita oculistica. Fa molti lavori, finché nel 1986 deve chiudere la sua carrozzeria a causa di alcune fatture non pagate. «Un’ingiustizia, ce l’avevo con il mondo», racconterà a Franca Leosini per giustificare l’inizio dell’attività criminale. Ha qualcosa del vitellone da Riviera; gli piacciono discoteche, moto e ragazze. In apparenza i fratelli fanno vite dimesse: si sposano, mettono al mondo figli, non consumano droga, niente lussi esibiti. Nessuna militanza politica, nonostante le voci sulle frequentazioni adolescenziali di Roberto nella sede del Fronte della Gioventù. Il loro passatempo preferito è il poligono di tiro. Sin da ragazzini, il padre gli ha messo in mano armi d’ogni calibro, come fossero in un ranch della provincia statunitense. «Sparano da Dio perché gliel’ho insegnato io», si vantava il genitore.
Il pedaggio di piombo
Questa saga familiare ha il sapore dell’America profonda, di pistole sempre cariche e interminabili trasferte in auto: col primo assalto i Savi entrano in una zona oscura tra la via Emilia e il West. Il problema è definirne i confini. Quando li hanno arrestati, gli investigatori stavano dando la caccia ai responsabili di una catena di delitti che partiva dal 1990. Invece Roberto e Fabio Savi riversano una confessione molto più estesa, assumendosi le colpe attribuite fino allora a tre bande diverse, attive dal 1987: quella detta delle Coop, quella che i giornali chiamano della “Regata Fantasma” e quella della “Uno Bianca”. Ancora più sorprendente è che per le prime e persino per l’eccidio del Pilastro, la magistratura aveva già individuato e addirittura mandato a giudizio persone diverse. I loro verbali invece narrano un cammino di violenza che travolge gli inquirenti. E, a leggerlo di fila, continua a lasciare sbalorditi.Cominciano quasi per gioco. Fabio con la necessità di quattrini, Roberto forse conlavogliadisfida.Ilcapopattugliaconvinceidueagentidellasuaquadra.Spiegherà Marino Occhipinti: «Ci mostrava mazzette di denaro. Partimmo a parlare di rapine così, per scherzo, poi passammo a compierle davvero. Io stavo per sposarmi, avevo bisogno di soldi». Luca Vallicelli è una meteora: esce dal gruppo dopo poco. Si aggiunge però il fratello Fabio. Sono tutti giovani. I Savi hanno 33 e 27 anni.MarinoOcchipintisoltanto22,come il“piccolo”Alberto.L’esordioaPesaro, il19giugno1987:puntanouncasellodell’autostradaeprendonounmilionee300 mila lire. Si descrivono come principianti del crimine. «Abbiamo iniziato con l’idea chenessunodovessefarsimale», diràFabio.
L’escalation che raccontano è rapidissima. Sei mesi ed eccoli ai supermercati: le Coop, il simbolo del benessere distribuito nella “Regione Rossa”. Mirano al colpo grosso: l’incasso completo dellagiornata. Il 30 gennaio a Rimini aspettano i vigilante che devono ritirarlo. Appena le tre guardie si avvicinano, scatta il tiro incrociato: Giampiero Picello morirà pochi giorni più tardi, un’altra è grave ma riesce a sopravvivere. È l’ora di punta. Il parcheggio è pieno di gente, i cecchini feriscono coppieuscite con il carrello della spesa, donne, una bambina di noveanni. Ilpanicoètotale,senzariuscire aprendereildenaro.Il20febbraioaCasalecchiodiRenoc’è“l’azione”—perusareillessicodiRoberto Savi—piùspettacolare.Perprelevareisoldiarrivanounfurgoneblindatoeuna vettura di scorta. Il corteo si ferma sulla rampa del garage. Appena siapronoleporte,iduefratellimaggiorilancianounabombae avanzano nel fumo scaricando i mitragliatori sulle guardie. Volano pallottoleovunque.UccidonoCarloBeccari;altretresonoferite. Possibilecheindueabbianoaffrontatoeabbattutocinquevigilante? Ci sono testimoni che descrivono più aggressori. Ci sono traiettorieche noncombaciano.Mala colparicadesolo suiSavi.Il 20 aprile a Castelmaggiore, la banda sta preparandosi ad assalire ancora una Coop. Notano un’Alfetta dei carabinieri. Li prendono alle spalle e assassinano i militari Cataldo Stasi e Umberto Erriu.
Qui c’è il primo episodio anomalo: un brigadiere dell’Arma depista leindagini. Mette sull’Alfetta alcuni bossoliedaltriidenticilifa ritrovare nell’abitazione di un indiziato. Il piano è maldestro e i magistrati lo smascherano: il sottufficiale dichiara di avere agito «perfarecarriera». Per molti mesi la gang vola basso e torna ai caselli. Ma il 26 giugno 1989 torna in una Coop bolognese. Stesso stile: una bomba e poi fuoco a volontà, ferendo tre vigilantes. Mentre fuggono, un pensionatogliurlaindialetto:«Safet,delinquent!»(«Cosafate,delinquenti!»). Si bloccano e ammazzano Adolfo Alessandrini con un colpo diretto. È una vera esecuzione, non sarà l’ultima.
Spari nel mucchio
Il 1990 è un anno in cui la brutalità sembra ispirata dal caos, come se non ci sia più una strategia. È allora che si comincia a parlare di Uno Bianca. È il modello più venduto d’Italia, anche se in realtà non è l’unico impiegato dalla Banda: rubano esclusivamente alcuni tipi di Fiat e Lancia che riescono a mettere in moto infilando una scheda telefonica al posto della chiave. Il 15 gennaio eccoli all’ufficio postale di via via Emilia Levante a Bologna: è il giorno delle pensioni, c’è una lunga coda. Piazzano un ordigno troppo potente che devasta ogni cosa: i vetri schizzano come frecce. A terra restano in 45, quasi tutti anziani. Giancarlo Armorati morirà dopo settimane in ospedale. Stupisce come passino da operazioni in grande stile ad altre improvvisate, da raid militari a mosse balorde. Il 6 ottobre, sempre nel capoluogo, cercano di rapinare il borsello a Giliberto Bonafè: l’uomo resiste e gli infilano due colpi nelle gambe. Stanno risalendo in macchina, quando vedono una persona che grida invocando aiuto e staannotando la loro targa. Si fermano, vanno da lui e lo ammazzano: Primo Zecchi muore così, a 51 anni.
A dicembre il ritmo diventa frenetico e i moventi perdono logica. Tutto a Bologna e dintorni. La sera del 10 al campo nomadi di Santa Caterina di Quarto seminano pallottole sulle roulotte: nove feriti. Il 22 nel parcheggio dell’Ipercoop sparano a due lavavetri tunisini. Il 23, domenica mattina, si posizionano davanti a un altro campo nomadi, in via Gobetti, e svuotano il fucile automatico Beretta AR-70 contro le roulotte. Quando finisce la raffica, Rodolfo Bellinati e Letizia Della Santina hanno smesso di vivere. Solamente quattro giorni di tregua e irrompono in una stazione di servizio di Castelmaggiore. Si fanno dare l’incasso – un milione e 800 mila lire – e dopo fanno fuoco a caso. Il gestore viene ferito. Un proiettile ammazza Luigi Pasqui, commerciante cinquantenne, che era lì per lavare la macchina. La banda scappa e, come sempre, raggiunge un parcheggio per cambiare auto. Paride Perini, 33 anni, li osserva mentre scendono. E loro non hanno pietà.
La notte più buia
Poco dopo le 22 del 4 gennaio 1991 un’auto dei carabinieri pattuglia i palazzoni del Pilastro, forse la zona meno tranquilla di Bologna. Supera una Uno Bianca, poi rallenta. Ma subito dalla Uno arriva una serie di pallottole. Il militare alla guida è ferito, cerca di chiamare la centrale e perde il controllo, finendo contro una fila di cassonetti. La Uno li raggiunge: escono in tre, sparando all’impazzata. Due carabinieri rispondono con le Beretta d’ordinanza. Il volume di fuoco dei Savi è implacabile: una pioggia di proiettili letteralmente crivella la vettura dell’Arma. Poi il colpo di grazia: i tre carabinieri ragazzini hanno poco più di vent’anni. Si chiamavano Andrea Moneta, Mauro Mitilini, Otello Stefanini.
“Bologna, sfida allo Stato”, titola la prima pagina di Repubblica. «Un fatto talmente grave che stentiamo a crederci», dice il procuratore capo Gino Paolo Latini a Luigi Spezia del nostro giornale. Il presidente Francesco Cossiga lo definisce «un atto di guerra». Gli assassini sono spettri. Non lasciano bossoli: usano un dispositivo che li raccoglie all’uscita dal fucile. La vettura su cui fuggono viene ritrovata in fiamme. Sul sedile però ci sono macchie di sangue. Le indagini della Direzione distrettuale antimafia prendono la pista della criminalità locale, i “pilastrini”: un gruppo emergente di duri. Una giovanissima testimone li accusa: «Erano lì». La procura si convince che quella notte avessero incontrato un personaggio pesante: Marco Medda, luogotenente di Raffaele Cutolo, in cella assieme al padrino durante le trattative con i servizi segreti per il rilascio del politico democristiano Ciro Cirillo sequestrato dalle Br. Il camorrista è evaso dal carcere grazie a un permesso premio nonostante fosse ergastolano. Di più: Medda è stato operato di nascosto pochi giorni dopo a Milano dopo per una ferita alla gamba. Si ritiene che fosse al Pilastro per rifornirsi di armi, forse da usare nella faida tra clan campani e calabresi in corso in Lombardia che due settimane prima aveva visto cadere l’unico figlio di Don Raffaele. La pattuglia dei carabinieri sarebbe arrivata nel momento dello scambio: l’avrebbero eliminata per proteggere la latitanza del boss. Una ricostruzione portata in Corte d’Assise e poi cancellata definitivamente dalla confessione dei Savi: «Il triplice omicidio è stato commesso da noi. Quella notte stavamo andando a rubare macchine. Avendo la sensazione che i carabinieri si fossero insospettiti e ci volessero fermare, ho aperto il finestrino ed ho esploso alcuni colpi. Poi tutti e tre siamo scesi. Io sono stato subito colpito da un proiettile. Nel frattempo Alberto e Fabio sparavano in direzione dei carabinieri. Poi ho perso conoscenza».
Nel cuore di Bologna
All’indomani del massacro, c’era però un elemento chiarissimo su cui indagare: i due fucili mitragliatori che hanno segnato l’ultima serie di agguati. Il Sig Manurhin e il Beretta AR-70 sono molto rari. In Questura pensano di analizzare chi li abbia comprati: in Emilia Romagna ne sono censiti venti. Indovinate chi ne possiede ben due? Roberto Savi. Che pochi giorni dopo la strage si presenta in un commissariato a denunciare di averne ceduto uno. Una pista lasciata nel cassetto. Il “Corto”, come lo descrivono i testimoni delle razzie, si cura da solo e nessuno dei colleghi in ufficio si accorge della ferita. In poche settimane riprende il doppio lavoro. La banda torna ai benzinai. Il 20 aprile a Borgo Panigale si fanno consegnare la cassa – 510 mila lire – e dopo uccidono il titolare, Claudio Bonfiglioli. Ammazzano pure il suo cane. I soldi restano sull’asfalto. Il 2 maggio la scena cambia. Siamo in via Volturno, nel pieno cuore di Bologna: sette minuti a piedi da Piazza Maggiore, ancora meno dalla Questura. C’è un’armeria, frequentata da tanti delle forze dell’ordine. Un cliente distinto chiede di esaminare due pistole e viene servito dalla titolare, Licia Ansaloni. Altri acquirenti lo vedono, poi escono: fuori c’è un’altra persona e ne tracceranno un identikit molto somigliante a Fabio Savi, che i testimoni hanno già indicato come “il Lungo” della Uno Bianca. L’uomo all’interno aspetta e prova con calma due Beretta 98 FS ultimo tipo. Quando arriva anche l’assistente di Ansaloni – il carabiniere in pensione Pietro Capolongo – uccide entrambi e scappa con la coppia di pistole. D’ora in poi saranno la firma della gang. Nel libro mastro che registra le vendite c’è più volte il nome di Roberto Savi. Incrociato con il possesso del fucile stragista, sarebbe stato un indizio illuminante. Ma nessuno ci fa caso. La città è sotto shock, c’è un clima cupo di paura e non si parla di altro: la sequenza di omicidi sembra non conoscere fine. Le stragi del Pilastro e dell’armeria sono state rivendicate da Falange Armata, una sigla eversiva che cavalca i principali fatti di sangue di quella stagione in ogni parte d’Italia, incluse le bombe di mafia. Non offre mai prove in grado di dimostrare la paternità degli omicidi, ma alimenta un’onda di mistero. Chi fossero gli autori di quelle telefonate e perché le abbiano fatte non è mai stato chiarito.
Riviera di fuoco
Il 19 giugno ancora un distributore. Con la pistola in tasca, affrontano il gestore: «Dacci i soldi, è una rapina». Graziano Mirri è stupito, s botta: «Cos’è, uno scherzo?». Gli sparano alla testa e se ne vanno, senza prendere nulla. Sono stakanovisti, paiono incapaci di fermarsi. Le razzie proseguono ma l’estate pare lenire la paura. Le spiagge romagnole si affollano di vacanzieri, è la stagione del divertimento. Spopola il remix di un brano di Lucio Dalla: “Attenti al lupo”. Le belve da cui guardarsi sono altre. Il 18 agosto alle due di notte, a San Mauro Mare viaggia un’utilitaria con tre operai senegalesi in gita al mare. La Uno Bianca li ghermisce al volo. Senza fermarsi, le due Beretta prese nell’armeria bolognese vomitano sedici proiettili: Ndiaj Malik e Babon Chejkh non hanno scampo; Madiaw Diaw sopravvive alle ferite. Mentre la banda fugge a tutta velocità, taglia la strada ad alcuni ragazzi di Rimini che inveiscono contro di loro. La Uno Bianca fa inversione e li insegue sparando. È come se calasse il gelo. La notte perde il clima festoso: c’è angoscia, ogni Uno bianca provoca un brivido. La Riviera viene blindata da posti di blocco e rastrellamenti. L’idea che ci siano in giro killer che sparano nel mucchio, senza un movente, moltiplica il terrore. E non si capisce il perché di tanta crudeltà. I Savi daranno motivazioni diverse e contraddittorie. Prima dicono che avevano confuso la vettura degli immigrati, targata Lecco, per un’auto civetta dei carabinieri. Negano e negheranno sempre il razzismo. Anche “Il Lungo” respinge ogni pulsione xenofoba, ma a Franca Leosini nel 2001 dichiara: «A Rimini i senegalesi avevano atteggiamenti che non si potevano tollerare. Giravano ubriachi fradici, in mezzo a vie dove passavano i bambini, erano sfruttatori e papponi. Li abbiamo seguiti per un po’ e poi sparato». La strage poteva chiudersi lì. Il comando dell’Arma di Pesaro avvia un’indagine sugli appassionati che frequentano i poligoni di tiro. Un’altra pista ovvia. Raccolgono notizie e vengono a sapere che Fabio Savi in ogni esercitazione recupera i bossoli con scrupolo certosino: un atteggiamento anomalo. Tanto più che aveva due fratelli poliziotti. Tanto più che sul luogo degli ultimi delitti c’erano bossoli che erano stati ricaricati. Il comando dell’Arma redige una segnalazione completa sui due fratelli. Che si perde nel nulla. L’esistenza stessa del rapporto viene dimenticata. La rivelerà nel 1997 l’ex ministro degli Interni Roberto Maroni durante il processo: «Me ne parlarono dopo l’arresto dei Savi. La relazione era stata inviata al Viminale: era accompagnata da una nota della Questura di Pesaro che la presentava come una vendetta dei carabinieri, perché la polizia aveva arrestato poco prima dei loro militari. E quindi fu archiviata».
La pausa
Nessuno è riuscito a capire perché, ma dalla chiusura del 1991 la Banda entra in sonno e per tutto l’anno successivo rimarrà ferma. Un lungo silenzio. Fabio Savi comincia a lavorare come camionista, va spesso nell’Europa dell’Est. A Budapest conosce Eva Mikula, sedicenne romena, e la porta in Italia. Comincia pure a trafficare armi: kalashnikov e pistole. Le “azioni” riprendono nel 1993, con un’altra evoluzione: si dedicano soprattutto alle banche. Il 24 febbraio fila tutto liscio: 50 milioni di lire, molto più delle vecchie prede. Un ragazzo però li fissa mentre cambiano auto: Massimiliano Valenti ha 21 anni. Lo obbligano a salire sulla loro vettura, lo uccidono e gettano il corpo in un canale a Zola Predosa. Fabio Savi è gelido nel descrivere l’esecuzione: «Cercò di vedere a tutti i costi il cambio di macchina, lo caricammo a bordo e lui continuava a guardarci. Gli ho detto più volte: “Stai a testa bassa”. Niente da fare. Insisteva…». La vita non conta nulla. Il 7 ottobre vanno in una banca e Fabio minaccia la cassiera. La donna esce di scatto e corre urlando verso l’officina lì accanto. Dall’auto della banda sparano: uccidono il meccanico Carlo Poli, 41 anni; feriscono la cassiera e un’altra donna. Ormai è una routine, senza sosta. Il 24 maggio 1994 tornano a Pesaro. Aspettano davanti alla Cassa di Risparmio il direttore Ubaldo Paci. Quando apre le porte, un killer solitario gli spara a bruciapelo. Non cerca soldi; ammazza e basta. A ottobre l’ultimo sangue. Nell’istituto di credito bolognese si rifiutano di sbloccare la porta blindata. Se la prendono con i clienti in attesa: una raffica sulla coda, ferendone tre.
Il finale
Questa è la storia più semplice. Dopo tanti anni, due poliziotti del commissariato di Rimini si mettono di impegno a cercare la soluzione. Luciano Baglioni e Pietro Costanza si muovono con discrezione partendo da uno dei pochi punti certi dell’equazione criminale: quelli della Uno Bianca studiano le banche prima di colpire. Così orbitano in borghese intorno alle filiali, con in tasca l’unica immagine ripresa dalle telecamere. Finché la pazienza non viene premiata: c’è un’auto che passa più volte. L’uomo al volante ricorda quello che stanno cercando. Identificano Fabio Savi, si confrontano con il pubblico ministero Daniele Paci e in pochi giorni chiudono la catena dei sospetti: scattano gli arresti. L’incubo è finito. Roberto viene ammanettato in Questura. Mentre lo trasferiscono in cella, dice agli altri agenti: «Avrei potuto ammazzarvi tutti». Fabio scappa con Eva Mikula. Ma si ferma nell’ultimo autogrill prima del confine austriaco. «Io mi sono arreso. In un’area di servizio piena di gente. Quando si arriva al capolinea bisogna dire basta». Alberto per qualche giorno prende le distanze, poi confessa. Game over. Con una drammatica appendice. Il padre dei Savi, l’uomo che li aveva educati al rispetto dell’ordine e alla pratica della armi, si suicida. Lo fa nell’auto che aveva comprato a rate: una Uno Bianca.
La memoria del pm
Diqueigiorniricordatutto.LatrasfertadicorsanellanottedaBologna a Rimini per andare a interrogare il capo di killer in divisa. La decisione della procura di assegnare a lui, all’epoca sostituto procuratore, l’intero capitolo delle stragi, dei delitti e delle rapine. E ricorda, soprattutto, la lunga, lunghissima notte in una stanzetta del carcere militare di Peschiera, dove “Il corto” era richiuso e dove dissediessereprontoacollaborare.«Mavoglioparlareconquel magistratochehafattoilpoliziotto».Quel«magistratochehafatto il poliziotto» si chiama Valter Giovannini, e oggi è sostituto procuratore generale in corte d’Appello a Bologna. «Il primo incontro con Roberto Savi, a Rimini, dopo il suo arresto a Bologna, è indelebile. Parlavaamonosillabi,comeunautoma,erispondevaaimagistrati diRiminieBolognadicendosemplicemente“positivo”o“negativo”. Qualche giorno dopo, a Peschiera, cambiò strategia. E disse tutto.Parlò dellerapine,di chic’era,della scelta diusare sempre quell’utilitaria. La stragrande maggioranza dei testimoni confermò tutto.Quellepersonefuronounesempiodicoraggiocivile.Come i tre ragazzi in divisa sacrificati al Pilastro. Ancora oggi provo unsentimentodidoloreimmensoperunmassacroinsensato».
I dubbi che tornano
Domani al Pilastro torneranno le lacrime e i ricordi, torneranno le madri che non hanno mai smesso di piangere. Ma torneranno, anche, i dubbi su una vicenda ancora molto misteriosa. Erano davvero solo dei “semplici” criminali i fratelli Savi? Che senso aveva andare a sparare nei campi nomadi? E che senso aveva usare sempre le stesse armi negli assalti col rischio di farsi riconoscere? Sull’ipotesi-terrorismo Giovannini la pensa così: «È stata una pista battuta per anni, da me e dai miei sei ragazzi del pool Uno bianca distaccati in modo permanente. Non è emerso nulla. C’era ovviamente un retropensiero per le modalità delle azioni e gli obiettivi. Ma nessun riscontro. E nulla è emerso dopo trenta anni dal Pilastro». Certo le suggestioni e i misteri non mancano. Il magistrato, per esempio, ricorda quando subito dopo l’arresto della banda, sui monitor dell’agenzia di stampa Adnkronos a Roma comparve un messaggio: “Falange armata, noi non c’entriamo nulla con la Uno bianca”.
I moventi indecifrabili
Lo stesso Giovannini nella relazione introduttiva al processo bolognese la definisce «una vicenda caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata… Episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale, che però connota quell’associazione di caratteristiche particolari…». La risposta a questi dubbi è nella «furia omicida» dei fratelli Savi, che supera ogni calcolo e li spinge ad agire come serial killer. Daniele Paci, il pm di Rimini che risolse il caso, lo chiama «terrorismo a scopo di lucro». Da trent’anni Rosanna Zecchi, la vedova dell’uomo che aveva tentato di fermarli, non ci crede: «Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione». Da trent’anni i familiari dei carabinieri trucidati al Pilastro chiedono di andare oltre la responsabilità dei Savi. Ludovico Mitilini, fratello di uno dei ragazzi in divisa, ha lanciato un appello: «Ci batteremo affinché venga fatta piena luce sulle tante ombre». Non esiste un database con i documenti sulla Banda. Le corti d’Assise hanno valutato le prove su tre elenchi di episodi divisi per competenza territoriale, disperdendo gli atti in tre processi a Bologna, Rimini, Pesaro. La saga assassina è stata parcellizzata. Così i fratelli Savi sono stati riconosciuti colpevoli. E lo sono, oltre ogni ragionevole dubbio. Ma perché lo hanno fatto?
Oltre loro
Se allarghiamo la visione, se cerchiamo di guardare quell’inarrestabile sequenza di reati da una distanza diversa, allora dopo trent’anni possiamo osare una lettura differente. Che provi ad addentrarsi nei buchi neri di questa incredibile saga pistolera. Anzitutto, c’è da considerare l’Italia di allora. Siamonegli anni in cui la Prima Repubblica si spegne. Non è una transizione dolce. Alla fine del 1990 le rivelazioni su Gladio, la rete militare clandestina in funzione anti-comunista, provocano un senso di vertigine. Nel 1992 poi cambia tutto. Mani Pulite azzera un’intera classe politica e la crisi economica chiude per sempre fabbriche antiche. Ci sono le stragi. Una forma nuova di terrorismo, messa in campo dalla mafia contando su alleanze nell’ombra ancora non decifrate. Diverse inchieste hanno cercato di chiarire chi abbia suggerito ai corleonesi gli obiettivi, collaborato nella preparazione degli ordigni, depistato la ricerca della verità e poi trattato in nome dello Stato per fermarli. Non abbiamo una verità. Ma sappiamo che qualcosa di anomalo è accaduto. Più volte i magistrati in passato hanno parlato di “menti raffinatissime”, di “terzo livello”. In tempi più recenti hanno sostenuto che non c’era solo la mano di Cosa Nostra ma anche della ’ndrangheta e di “apparati deviati”. Se prendiamo una mappa della Penisola, c’è una suggestione immediata. Tra il 1992 e il 1993 bombe esplodono in Sicilia e poi a Firenze, a Milano, a Roma. Ma non a Bologna. Perché? Forse perché la città aveva già pagato un prezzo altissimo. Il massacro della Stazione, l’Italicus, il treno 904: una via crucis dolorosa, che però aveva sortito effetti opposti ai disegni dei bombaroli. Il tritolo non aveva generato terrore, ma unito la città nella risposta: per piegare Bologna ci vuole altro. Già, ma l’Emilia Romagna è strategica per i destini della nazione.
La “Regione Rossa”, modello eccezionale di un comunismo che ha saputo creare benessere diffuso. Lì in via Pellegrino Tebaldi il 12 novembre 1989 il segretario del Pci Achille Occhetto apre al cambiamento di nome del partito. Cosa che verrà sancita nel congresso del 3 febbraio 1991 a Rimini. Via Tebaldi è a cinque minuti di auto dal luogo dove vengono massacrati i tre carabinieri; il Partito Comunista scompare un mese dopo le raffiche del Pilastro. In quelle città non c’è stato bisogno di bombe, perché a seminare il terrore ha provveduto la Uno Bianca. La gang assassina rivendica un’escalation che segue cronologicamente la dissoluzione del Pci. L’anno più duro è il 1991, poi c’è una pausa e quindi aumenta il volume di fuoco fino al 1994. Quando smettono, l’Italia non è più la stessa. Al governo c’è il centrodestra. E persino in Emilia Romagna il fronte composto da Berlusconi, leghisti e post-fascisti – all’epoca An veniva definita così – è arrivato al 33 per cento dei voti.
Se la Uno Bianca doveva diffondere insicurezza, spingendo i cittadini a cercare legge e ordine nella destra emergente, allora ha ottenuto il risultato. Se qualcuno ha ispirato, pilotato e protetto la Banda, allora aveva completato la missione. O era stato tolto di mezzo. Perché anche nel mondo degli apparati di Stato c’è un rinnovamento generale: l’intero Sisde, il servizio segreto interno, viene travolto dagli scandali. È il primo governo di centrodestra a completare la pulizia. «Certamente nel Sisde e poi nel Dipartimento di Pubblica Sicurezza – dichiara l’ex ministro Maroni – c’era una situazione che non dava garanzie: i direttori non controllavano gli uomini sul territorio. Decisi di cambiare l’aria. Questo ruppe gli equilibri, creò una reazione a catena e in poco vennero arrestati i Savi...».
L’altra confessione
Nell’altalena di versioni e dettagli variabili fatta oscillare dai fratelli Savi, c’è un momento singolare. Un anno dopo la confessione fiume, Roberto e Fabio fanno un’inversione di rotta. Sostengono di avere responsabilità in ogni delitto, di avere commesso tante rapine, ma di non avere mai ucciso. In quelle parole, le bande tornano così a essere tre. Quella delle Coop, composta da agguerriti catanesi vicini al clan Santapaola, mandati a processo prima di venire scagionati da loro. Una di delinquenti romagnoli. E infine la Uno Bianca, che però non era soltanto opera loro. A tutte, i Savi hanno fornito armi, auto, supporto: una società di servizi a gestione familiare. Pistole e mitra sono sempre le loro; ma nelle sparatorie più sanguinose altri premono il grilletto. Il capitolo più inquietante, però, riguarda misteriosi «uomini delle istituzioni». Roberto Savi dichiara che lo hanno avvicinato di notte, a Bologna. Gli dicono di sapere che loro c’entrano con l’uccisione dei due carabinieri davanti alla Coop e che hanno provveduto a depistare le indagini. «Sapevano tante cose, sapevano che davamo le armi ai rapinatori. Avevano modo di fermare le inchieste, le deviavano». Poi gli intimano di lavorare per loro: «Se vi servono soldi, ve li diamo noi. E vi copriremo. Lo abbiamo già fatto».
Questi emissari «della famiglia» – intesa come lo Stato – dall’autunno 1989 li contattano indicando il tipo di bersaglio desiderato: banca, ufficio postale, distributore. I Savi preparano l’azione, consegnano il necessario e rimangono in contatto radio per coordinare la fuga. I due spiegano che «quelli lì» gli avevano detto di confessare tutto, anche quello che non avevano commesso, poi avrebbero sistemato le cose: «Ci hanno chiesto di tenere quella versione per un anno dalla chiusura delle indagini». Roberto centellina le frasi ma fa capire che a queste persone il denaro non interessava. Gli importava il clamore degli attacchi. «Perché dovevamo uccidere i benzinai? Come l a penso io? Uno prende i soldi e non ammazza…».
Il servizio criminale
Questa nuova storia parla di un service criminale. Come la Banda della Magliana, che affittava pistole a 007 e terroristi, che vendeva informazioni in cambio di protezione. Oggi la saga romana è il paradigma delle trame, la stella polare dei complottisti. Allora però non era di moda: il “Romanzo Criminale” di Giancarlo De Cataldo la renderà famosa a partire dal 2002. Il Corto e il Lungo come il Freddo e il Libanese? Suggestivo, ma processualmente infondato quanto inesplorato. Il testacoda della Uno Bianca avviene nell’autunno 1995, nel dibattimento di Rimini. Roberto non offre nomi, precisa solo che «quelli delle istituzioni» venivano quasi dalla Toscana e in alcuni casi da Milano. Non ci sono riscontri. E non c’è neppure lo stimolo di approfondire, per non dare appigli alla volontà revisionista degli assassini. Nessuno crede a quelle frasi. Tant’è che dopo poco i Savi se le rimangiano. Non appellano neppure gli ergastoli, che diventano subito irrevocabili. Giustizia è stata fatta. Come ha detto Fabio Savi: «Dietro la Uno Bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. Basta. Non c’è nient’altro».
I tre fratelli oggi sono ancora in cella. Per loro però non c’è stato il carcere duro: sono “normali” assassini, senza aggravanti di mafia o terrorismo. «Speriamo di conoscere la verità vera, perché fino adesso penso che non l’abbiamo saputa». A ogni anniversario, la signora Anna Maria Stefanini ripete la sua invocazione. Non dimentica e non perdona chi ha ammazzato il figlio Otello, uno dei carabinieri del Pilastro: «Il mio dolore è sempre quello, anzi più il tempo passa più è peggio». Il dolore di una donna semplice. Che non riesce a credere che la Uno Bianca sia stata una storia semplice.