3 gennaio 2021
In morte di Marco Formentini
Concetto Vecchio, la Repubblica
Diceva: «Sono una persona piatta e comune che può diventare un leone». Quel che adesso colpisce, nel congedo di Marco Formentini – l’ex sindaco di Milano morto ieri a 90 anni – è che non lo omaggiano soltanto i leghisti. Il cordoglio è trasversale perché Formentini ha vissuto tante vite, per inquietudine politica e inclinazione culturale. Vedetta partigiana, socialista, segretario nella giunta regionale di un democristiano illuminato come Piero Bassetti, leghista, primo e unico sindaco del Carroccio a Milano, tra il 1993 e il 1997, gli anni della rabbia e di Roma ladrona, quindi il passaggio col centrosinistra, nella Margherita di Arturo Parisi, e infine democristiano, nel partito di Gianfranco Rotondi.
E infatti lo ricordano Matteo Salvini («un uomo onesto, coraggioso, concreto, e generoso: proteggi la nostra Milano e la nostra Italia da lassù») e Beppe Sala, Giuliano Pisapia e Riccardo De Corato, Carlo Sangalli e l’Anpi. Roberto Calderoli dice: «Piango un amico, mi ha insegnato la politica». Roberto Maroni ha postato su Twitter una foto degli inizi: Formentini lo tira per un braccio. Al telefono l’ex ministro dell’Interno spiega: «È un’immagine del 1992, quando entrammo a valanga in Parlamento. Bossi mi aveva scelto come capogruppo alla Camera, ma i milanesi protestarono perché c’era già un altro varesino, Francesco Speroni, capogruppo al Senato, e quindi toccò a Marco. Avrei dovuto odiarlo, invece scoprii un maestro di retorica e di posa. Diventammo amici. Quando divenne sindaco, presi il suo posto. Fu coraggioso nelle scelte degli assessori, fatte in autonomia, da Philippe Daverio alla cultura a Marco Vitale all’economia. Non disse nulla a Bossi, Umberto gli avrebbe detto: “Chi è questo Philippe?” Allora eravamo soli contro tutti, ma lui seppe coniugare visione con la nostra identità».
È il 20 giugno 1993, le prime elezioni dirette. Formentini sconfigge al ballottaggio Nando Dalla Chiesa. L’Italia schiuma di indignazione per Tangentopoli. L’onda di protesta spazza via il craxismo, la Milano da bere e i selvaggi anni Ottanta. Bossi lo ha convinto a candidarsi durante una cena in pizzeria. Formentini è fuori dal canone lumbard. È di La Spezia, parla benissimo inglese e francese, dopo la laurea in legge a Pisa nel 1956 ha vinto un concorso per funzionario alla Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, a Bruxelles, dove rimarrà fino al 1968, un borghese di raffinate letture che fa il baciamano alle signore: l’opposto del celodurismo. Infatti i compagni di classe del liceo classico Lorenzo Costa sono stupiti nel ritrovarselo leghista.
Benestante, rivelerà che con l’indennità da sindaco (due milioni e mezzo di lire), copre giusto l’affitto. Formentini ingaggia un corpo a corpo con il centro sociale Leoncavallo, costretto allo sgombero, una decisione di cui si pentirà, vara la pedonalizzazione dal Duomo a San Babila, la linea 3 della metropolitana e il primo progetto della linea 4. Lo intervista il New York Times. Cuore ribattezza l’inseparabile moglie, Augusta Gariboldi, la first sciura; rimasto vedovo si risposerà a 85 anni con Daniela Gallione, un’insegnante in pensione di 65 anni. Celebrerà il rito l’allora sindaco Giuliano Pisapia. Paolo Pilliteri, il cognato di Bettino Craxi, primo cittadino socialista dal 1986 al 1992, ora dice che era «un vero moderato e ciò ne ha fatto il sindaco di tutti». È stato l’attore di un tempo di mezzo, una stagione che lentamente ci ha condotti fin qui. Ha fatto anche l’europarlamentare, è in quel frangente che deciderà di lasciare la Lega. «Un uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa», ha commentato Beppe Sala. E ha proclamato per domani, nel giorno dei funerali, il lutto cittadino.
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Stefano Zurlo, il Giornale
Fu l’uomo giusto su una poltrona assai scomoda. Nessuno, solo qualche tempo prima, avrebbe scommesso sul futuro di Marco Formentini, diligente segretario della giunta regionale guidata dall’eterno Piero Bassetti. Formentini era un socialista ligure, affabile e metodico, con qualche spigolosità che lo distanziava dagli eccessi e dalle sguaiataggini di certa Milano da bere.
Il suo orizzonte sembrava ben delineato dentro la cornice immutabile della Prima repubblica. Poi il quadro si ruppe, Mani pulite fece irruzione nella vita pubblica ambrosiana e tricolore, il pentapartito si squagliò come neve al sole - senza rimpianti, almeno allora - e molta ignominia. Non c’era tempo per le commemorazioni, fra un arresto e un avviso di garanzia, ma semmai per qualche repentina conversione al nuovo che premeva.
Lui si era già spostato in direzione della Lega di Umberto Bossi, il 5 aprile 1992 - nemmeno due mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa e l’inizio del terremoto giudiziario - approdava alla Camera diventando il primo capogruppo del Carroccio, la vera novità di quella stagione di cambiamento e scombussolamento.
L’anno dopo, 1993, il più cupo della Rivoluzione in toga, fu catapultato a Palazzo Marino, fra le macerie di un passato livido e gli spasimi di un futuro incerto.
La Milano del Garofano era sparita: Paolo Pillitteri aveva provato a ironizzare alla sua maniera sugli importi astronomici delle mazzette che gli contestavano, così esagerati da non poter finire per mancanza di spazio nella tasca di una giacca, ma quello non era il tempo dei dettagli e dei sorrisi sofisticati. Game over per lui, per Carlo Tognoli, insomma per una dinastia di sindaci del Psi, e anche per l’ufficio del leader del partito, Bettino Craxi, sui tetti di Piazza Duomo, a simboleggiare un potere intramontabile. C’è un gesto che simboleggia il sipario sulla scintillante Milano socialisteggiante; è il 20 giugno ’93, giorno dell’incoronazione di Formentini: il primo cittadino e Bossi si affacciano da un balcone di Piazza Duomo e Bossi guarda verso gli uffici un tempo affollatissimi e ora in disarmo di Piazza Duomo 19, con uno sguardo che dice tutto.
Non è facile oggi comprendere lo sconquasso di quei giorni. Un mese dopo, fra il 20 e il 27 luglio, la città vive una settimana terrificante: il 20 Gabriele Cagliari, uno dei grandi nomi della nomenklatura craxiana, si suicida nel carcere di San Vittore, dove è detenuto da mesi, infilando la testa in un sacchetto; il 23, in simultanea con i suoi funerali, arriva la notizia che pure Raul Gardini, motore di uno dei gruppi industriali più importanti del Paese, si è sparato a un passo dall’arresto nei sontuosi saloni della sua lussuosa residenza vicino al Duomo. Infine, il 27 una bomba di matrice mafiosa provoca la strage di via Palestro.
I resti della corte craxiana si trasferiscono nel «ridotto» di Hammamet, fra rancori e processi fragorosi, come quello a Sergio Cusani in cui Arnaldo Forlani si ritrova sotto l’albero di Natale di quell’interminabile ’93 con la bava alla bocca in balia di Di Pietro.
«Di Pietro, Colombo andate fino in fondo», gridano i girotondini fuori da Palazzo di giustizia e però da qualche parte si deve pur ripartire. Ci vuole un compromesso fra rottura e ricostruzione, fra il vecchio e il nuovo che si volta all’indietro per puntellare il proprio consenso.
La Lega di lotta e di governo, forza secessionista ma presto integrata col centrodestra, irrompe nei Palazzi, come i Cinque stelle venticinque anni dopo. Formentini è il primo sindaco eletto direttamente dal popolo battendo Nando dalla Chiesa, espressione, più o meno, della gioiosa macchina da guerra occhettiana che l’anno dopo sarà battuta a sorpresa dall’altrettanto emergente Silvio Berlusconi.
Così, oggi Milano piange il sindaco di quell’epoca tumultuosa di scomposizione e restaurazione, scomparso ieri a 90 anni. Formentini è la sintesi di quel periodo difficile e confuso, con la Lega a comandare nella metropoli prima di cedere lo scettro a Forza Italia, a Gabriele Albertini e Letizia Moratti. Quattro anni, dal ’93 al ’97, segnati dalla pedonalizzazione dell’area compresa fra Piazza Duomo e Piazza San Babila, poi dai progetti di sviluppo della metropolitana, dallo sfratto del Leoncavallo, ma soprattutto dalla sperimentazione di una giunta costruita fuori dal perimetro dei grandi partiti. Ecco lo storico dell’arte Philippe Daverio alla cultura, l’economista Marco Vitale al bilancio, il professor Marco Giacomoni ai servizi sociali, Walter Ganapini all’ambiente. E poi accanto al borgomastro si fa notare la first sciura Augusta, da cui Formentini ha avuto tre figli, scomparsa nel 2012.
Nel ’97 Formentini, primo e unico sindaco leghista sotto la Madonnina, corre in solitaria sotto il vessillo del Carroccio, ma perde al primo turno e lascia il bastone ad Albertini che ridisegnerà lo skyline della metropoli. Ma quella è un’altra storia, legata al vento berlusconiano.
Come spesso capita nella storia, l’interprete di quella stagione non trova posto sul palcoscenico del nuovo ordine che si sta consolidando, dopo la fine della tempesta giudiziaria. L’europarlamentare rompe con la Lega, passa ai Democratici di Arturo Parisi, poi alla Margherita. Rimasto vedovo, si risposa nella Milano di Giuliano Pisapia che celebra il rito.
«Formentini è stato un sindaco di cui Milano può essere orgogliosa», afferma Giuseppe Sala. «Buon viaggio, Marco», è il congedo di Matteo Salvini, capo di una Lega assai diversa da allora.
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Marco Cremonesi, Corriere della Sera
L’elezione di Marco Formentini scoppiò. Come una rivoluzione. Nel 1993 si sapeva che la Lega avrebbe fatto il pieno, ma da lì a vedere la conquista di Milano ce ne correva. E invece, tra le cannonate dell’inchiesta Mani Pulite, in mezzo alla polvere sollevata dalle macerie dei vecchi partiti, spuntò il borgomastro leghista scomparso ieri a 90 anni: primo sindaco eletto direttamente dai milanesi fu anche il primo alla guida di una maggioranza monocolore, 36 consiglieri su 60. Tra loro, con 194 voti, anche un ragazzino di 21 anni, un certo Matteo Salvini. Allora terzultimo per preferenze, è l’unico che è rimasto.
In teoria, Marco Formentini non aveva bisogno di parlare con nessuno. E infatti, nella primissima fase, lui non lo fece. Indossò anzi la maschera, che non era sua, del leghista cattivo. A dispetto di quella bonomia umana che tutti ricordano, a dispetto del tratto autenticamente cordiale, impose le sue regole: vietato a tutti parlare con i giornalisti, vietato disturbare gli assessori. Gli stessi consiglieri comunali — racconta la ex capogruppo Marilena Santelli — per interloquire con gli uomini della giunta dovevano compilare un modulo. Nacque così il ruolo non ufficiale di tramite con la stampa dell’indimenticabile «first sciura», Augusta Gariboldi, scomparsa nel 2012. Poi, nel 2015, a 85 anni suonati, Formentini sposò, officiante Giuliano Pisapia, Daniela Gallone.
La fase ultraleghista durò neanche un anno, il tempo che Silvio Berlusconi scendesse in campo. L’alleanza tra Lega e Forza Italia, lungi dal rafforzare Formentini, finì con l’indebolirlo: quando Bossi fece cadere il governo, non passarono sei mesi che il sindaco si ritrovò senza maggioranza: il mandato arrivò a conclusione naturale grazie soltanto al sostegno del centrosinistra. Simbolo e suggello del patto, fu l’elezione a presidente del consiglio comunale della socialista Letizia Girardelli, già assessora con il predecessore di Formentini, il riformista ex Pci Piero Borghini. È lei a fare il paragone con i 5 Stelle del 2018: «Erano arrivati nella stanza dei bottoni ma non sapevano dove mettere le manic. Poco dopo, all’Ambiente, arrivò Walter Ganapini: certamente un tecnico, certamente di sinistra.
Molti anni prima del Movimento 5 Stelle, la Lega misurò così la distanza tra l’ideale politico e la prassi di governo. Va detto che ben prima del patto con la sinistra, la giunta Formentini non era un monoblocco di leghisti duri e puri: assessore alla Cultura era il grande Philippe Daverio. Memorabili i suoi scontri con Giorgio Strehler per la realizzazione della nuova sede del Piccolo Teatro. Ma in squadra c’erano anche l’economista Marco Vitale, già consulente di Borghini, e il cognato di Giorgio Bocca, Marco Giacomoni. Ma non perché il grande giornalista, prima delle elezioni, avesse fatto un endorsement pro Formentini che a sinistra fece rumore. Fatto sta che il borgomastro leghista, nel 1997, nemmeno arrivò al ballottaggio. Sergio Scalpelli, che divenne assessore poco più tardi, allarga la braccia: «Formentini è stata persona meravigliosa. Ma la sua giunta è stata la peggiore del secondo Dopoguerra. La giunta Albertini ha inventato cose molto importanti per questa città, ma ha avuto gioco facile per il fatto che i predecessori nemmeno erano riusciti a tirare fuori dai cassetti i progetti ereditati».
Politicamente, Formentini era nato socialista: fu il segretario della prima giunta della storia lombarda, quella guidata da Piero Bassetti. Nel ‘99 arrivò l’addio alla Lega. Spiegò di essere a disagio per la svolta secessionista di Bossi. A Palazzo Marino, Salvini lo attaccò con un discorso incandescente: Formentini era stato appena eletto a Strasburgo con la Lega. Acqua passata: ieri Salvini l’ha ricordato come «uomo onesto, coraggioso, concreto e generoso». Più tardi, l’ex sindaco si avvicinò alla Margherita prima di tornare nel centrodestra con la Dc di Rotondi. Il sindaco Beppe Sala lo ricorda così: «Formentini è stato un uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa».