La Lettura, 3 gennaio 2021
La dinastia di Dynasty
In fondo, lei aveva solo voglia di involtini primavera. Ma lui fa preparare il jet privato, le porge il braccio e insieme si mettono in volo per raggiungere il miglior ristorante di San Francisco. «E se tu avessi avuto voglia di una cena francese saremmo andati a Parigi», aggiunge guardandola come solo Blake Carrington sapeva fare. Il suo era lo sguardo sentimentale dei ricchi che dalla ricchezza non distillano tanto il cinismo quanto il desiderio di godersi un po’ la vita, arrivati nei pressi dei sessant’anni e con i capelli grigi. Per esempio, la libertà di corteggiare la segretaria quarantenne, bionda e gattamorta in sonno, certamente devota.
E così, di Dynasty (l’originale, non il reboot oggi su Netflix), più che la trama ci ricordiamo certi dettagli: il diamante grande quanto una noce che lui le regala nel chiederla in sposa; le tute-pantalone guarnite di strass che Krystle – la segretaria Cenerentola – indossa già a metà mattina, quando appare in cucina truccata e cotonata per dare le disposizioni sul pranzo; il cappello con veletta della «perfida Alexis», una divisa più che un accessorio, come il bocchino per la sigaretta. Sì, era il 1981 e nel nostro immaginario si insediavano «i ricchi».
Per amor del vero, i petrolieri c’erano già: Dallas ha debuttato nel 1978. Ma in Dynasty, che prese il via il 12 gennaio di quarant’anni fa sulla rete Abc (in Italia arriverà l’anno dopo, 1982), la ricchezza era qualcosa di più. Era più plastica, più pittorica, decisamente più sfrontata. «Perché era necessaria alla storia stessa», puntualizza Daniela Cardini, docente di Linguaggio televisivo all’Università Iulm di Milano. «L’America si lasciava alle spalle la crisi petrolifera, la gente voleva una sola certezza: non tornare mai più in difficoltà economiche». Non era tanto, dunque, il desiderio di essere ricchi, quanto la paura di tornare poveri. E così, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, due grandi affreschi televisivi inoculano nel mondo intero il bisogno di vedere la ricchezza, darle una forma, dei nomi, una storia.
Dallas e Dynasty. Il Texas da una parte e il Colorado dall’altra, ma sempre di petrolieri parliamo e sempre di famiglie in conflitto. Come notò Beniamino Placido nel 1986, in un articolo su «la Repubblica», le grandi saghe familiari sono la chiave narrativa migliore per queste storie di ricchi. Intrecciando il parentame c’è più confronto e, soprattutto, emergono giocoforza le carte mal riuscite: la nipote svitata, la moglie alcolizzata, il cugino troppo fragile per il potere che gli tocca in destino. Ecco, potremmo esserci anche noi allora dentro quel microcosmo dove nessuno lavora e dove non si parla mai di politica – e quando qualcuno di quel mondo, molti anni dopo, lo farà, diventerà presidente degli Stati Uniti.
Un microcosmo surreale, certo. Però in Dynasty, osservarono Fruttero&Lucentini in un saggio inserito ne Il cretino è per sempre(Mondadori), «il lusso avrà un tono più sedimentato e sofisticato, ci sarà una biblioteca debitamente “di figura” con caminetto e dorsi dorati ma dove non è inconcepibile che uno dei personaggi s’installi una volta al mese a leggere un libro».
Sempre se avanza tempo tra un colpo basso e l’altro tra i Carrington e i Colby. Blake Carrington è il patriarca, il magnate del petrolio da cui tutto ha inizio. Sposa Krystle, vincendo le (abbastanza flebili) remore di lei davanti alla prospettiva di diventare così ricca. Con buona pace di Fallon, la figlia di Blake avuta dal precedente matrimonio: e d’altronde la ragazza ha già il suo bel daffare con gli uomini, autista compreso. Con l’altro figlio, Steven, Blake cerca comunque un dialogo e anche quando il ragazzo rivela la sua omosessualità il padre vacilla ma insegue appigli in un’eventuale soluzione bisex, più rassicurante. Certo, poi ammazzerà Ted, l’amante di Steven. «Ma è stato un incidente», giurerà al processo.
Vendette, panni sporchi, soldi. Insomma, se le prospettive fossero rimaste queste ci saremmo sorbiti una soap opera pruriginosa e basta («Non chiamatele serie: nella soap ci sono puntate aperte e potenzialmente la storia è infinita», dice Cardini). Un feuilleton sui ricchi e poco più. Ma dietro Dynasty c’era uno degli uomini più visionari della storia della tv: Aaron Spelling. E la leggenda narra che fu il produttore ad avere l’idea che cambierà non solo la soap ma anche, un po’, le nostre vite.
E l’idea si chiamava Alexis Carrington Colby. La prima moglie di Blake. L’allora quarantottenne Joan Collins accettò una parte che era stata rifiutata da Sophia Loren e da Liz Taylor. Forse anche lei aveva intuito, come Spelling, che non si trattava di piazzare un volto noto per alzare gli ascolti deludenti, ma di inventare radicalmente un personaggio. Alexis appare all’inizio della seconda stagione ed esordisce come testimone al processo che vede Blake imputato per omicidio. «Sin dall’entrata in scena si capiva che la televisione ci stava proponendo un nuovo modello, un anti-eroe femmina. Per la prima volta vedevamo una donna cattiva, sì, ma protagonista», dice Cardini. I tempi erano maturi e l’estetica aiutava: il trucco pesante, le spalline, il vitino stretto. Non era una donna, ma una guerriera armata, fiera del suo cinismo, spregiudicata e pronta a ingaggiare il conflitto con «l’altra donna», la bionda remissiva e sottomessa al boss. Con Alexis l’audience di Dynasty prese a crescere e non si fermò se non con la fine della soap opera, nel 1989.
«Io sono il boss», sembrava dire Alexis ogni volta che metteva a segno un colpo contro i Carrington. «Interessante come quel modello poi sia stato ripreso per raccontare le donne in ascesa sul lavoro. Un modello che in fondo è vivo ancora oggi», commenta Giorgio Grignaffini, che insegna Analisi e scenari della tv sempre alla Iulm. Nasceva un’iconografia precisa, che avrà il volto di Melanie Griffith in Una donna in carriera (1988); per certi aspetti anche quello di Sharon Stone in Basic Istinct (1992). E che ha un nome inequivocabile: «la stronza». O the bitch, appellativo con cui sopravvive ai nostri giorni in numerosi brani musicali delle popstar. Se infatti, a proposito di Alexis, si è parlato di sfumatura femminista, Cardini sottolinea un aspetto che forse è anche più originale: «Era una precisa raffigurazione del potere. Fisica. Dal trucco pesante agli abiti costosi, era un potere che segnava il territorio. Combattente. Perennemente in trincea. Pensateci: uno come Trump sarebbe stato benissimo in una puntata di Dynasty».
Non solo per fedeltà iconografica, ma anche per spirito: nelle terre di Dallas e Dynasty la ricchezza scaturiva dall’allevamento del bestiame e dal petrolio. Dunque dalle anime più profonde dell’America che ha fatto i soldi e che non è intenzionata a spartire con nessuno la propria ricchezza. L’America che a un certo punto ha evocato fantasmi nati dalla paura di tornare poveri più che dal desiderio di arricchirsi. Quell’America a cui si sarebbe rivolto Donald Trump nella sua campagna elettorale nel 2016. E lo stesso clan trumpiano – con i suoi caratteri, dalla «figlia preferita» Ivanka alla «nipote ribelle» Mary – ricalca bene le dinamiche di Dynasty.
Non solo. Dietro quella proliferazione di caratteri, dal fragile allo spietato fino al compassionevole (la solita melensa Krystle), si andava articolando una nuova narrazione della famiglia. Che perdeva la sua storica compattezza, sdoganando figure come l’erede scavezzacollo, la ninfomane repressa, l’omosessuale che finalmente trova il coraggio per fare coming out. Due tra i libri più significativi sul tema, come Ballo di famiglia di David Leavitt e Rumore bianco di Don DeLillo sono, rispettivamente, del 1984 e 1985. «Se ci pensiamo – continua Grignaffini – l’attrazione per le famiglie ricche ma disfunzionali è lo stesso meccanismo che oggi ci inchioda a The Crown» e forse non si dovrebbe parlare solo della serie di Netflix, visto che molta stampa inglese si regge sulle chiacchiere intorno alla vita vera dei Royals. «In qualche modo – conclude il ricercatore – l’erede di Dynasty è il recente, acclamato, Succession».
Se il reboot di Dallas è durato tre stagioni, dal 2012 al 2014, vedremo quanto durerà quello di Dynasty, partito nel 2017 e attualmente disponibile su Netflix. Cardini taglia corto: «In realtà oggi sono inguardabili entrambi, sia l’originale che il reboot». In effetti il paternalismo di Blake che seduce Krystle con il potere dei soldi, la sofferenza di Steven che deve ricorrere a legami etero per nascondersi, la perdizione di Fallon sono tutte cose che fanno rabbrividire. Ma ancora oggi lì ritroviamo qualcosa di familiare, qualcosa che ci ha segnato. «La contrapposizione tra la perfida Alexis e la dolce Krystle ha diviso intere generazioni», conclude Cardini.
Ma nessuno parli di «potere», perché entrambe non combattono per sé: si contendono un uomo, Blake (certo, anche i suoi soldi). In fondo questa è la grande stortura di Sex and the City: quattro amiche che sbandierano la libertà sessuale ma alla fine sognano il principe azzurro. Certo, Alexis ha fatto passi avanti, uscendo da quello che la linguista americana Julia Lesage ha definito the hegemonic female fantasy (in sintesi: l’attrazione della pupa fragile per l’uomo ricco e potente). E anche nella vita vera, se Joan Collins ha costruito un piccolo impero costellato di mariti, Linda Evans, cioè Krystle, dopo Dynasty, si è messa (tra l’altro) a girare il mondo sulle orme di una santona, una guru, per «cercare il vero senso della vita». Da che parte state?