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Biografia di Fiorella Mannoia raccontata da lei stessa
Per un’artista che canta nei teatri e nelle piazze, o talvolta negli stadi, l’unico sollievo oggi è poter pensare al futuro con qualche forzato ottimismo. Si apre un anno denso di incognite e se ne è chiuso uno, dice Fiorella Mannoia, che è stato come cavalcare sulla sella delle onde di un mare molto mosso: «Mi sembrava sempre di stare sul punto di essere disarcionata». Per una che ama i cavalli, che li ha sempre amati, sembra volerci restituire un sentimento contrastato su quella vita definita «benedetta» e che qualcuno ha voluto condannare.
Ci parliamo al telefono. Le dico che ho trovato bello il suo lavoro recente: un album composto in cattività che reca in copertina un richiamo al celebre dipinto di Caspar David Friedrich. Lo avete presente, no? Un uomo indossa un’elegante redingote nera e sulla vetta di un monte scruta un fitto strato di nebbia. Dà le spalle a noi che lo guardiamo e nulla perciò sappiamo del suo volto, da quali emozioni è attraversato: «è un dipinto che amo, un enigma felice che avvolge un uomo che sembra volgersi al futuro.
Cosa si lascia dietro e cosa lo attende? È questo che mi interessava e che ho provato a raccontare con il mio nuovo disco Padroni di niente ».
Lo hai pensato, creato e realizzato in questi mesi molto particolari?
«L’ho concepito in un momento difficile, che mi ha posto davanti a due sentimenti contrastanti. Da un lato, la consapevolezza che fosse un’entità biologica trascurabile, un virus, a mettere in crisi l’intero nostro mondo. E lì, davvero, ho sentito acuta la sensazione della nostra fragilità: da padroni incontrastati, siamo improvvisamente diventati “padroni di niente”. E poi c’è stata l’altra sensazione: la scoperta che un Paese rissoso, furbo, poco incline alle regole, si scoprisse diverso. Si scoprisse simile a una comunità, capace di esprimere pensieri belli, solidali e perfino profondi. La prima fase, in cui siamo rimasti chiusi per mesi, è stata un’esperienza indimenticabile. Molto diversa da quella che stiamo vivendo».
Diversa in che senso?
«Oggi c’è molta preoccupazione per il futuro: più stanchezza e più paura. E aggiungerei, da cittadina, più confusione. Alla fine, in questo mare di informazione, spesso contraddittoria, fatta da politici e virologi di turno che ossessivamente comunicano, la gente non capisce più nulla».
Ti senti disorientata?
«Lo sono e cerco di reagire, con il linguaggio della musica. Gli stimoli vengono dall’esterno. Che tu sia un cantante, un regista o uno scrittore, non cambia poi molto: prendi quello che la realtà ti offre e lo traduci con la tua sensibilità, i tuoi codici. Un tempo c’era un tema che legava un gruppo di canzoni, ora è tutto molto più difficile. Sarebbe quasi impossibile realizzare un album dedicato al Sud, dove raccontavo la storia dell’unità d’Italia in modo diverso da come ce l’avevano insegnata a scuola».
Perché dici che oggi è difficile realizzare un album a tema?
«C’è molta più frammentazione e disincanto e al tempo stesso un’attenzione quasi feticistica ai problemi personali. Abbiamo meno filtri culturali.
Per la mia generazione i libri sono stati fondamentali. Credo che un disco come Titanic di Francesco De Gregori non sarebbe nato in quella forma se non avesse letto America di Kafka. E lo stesso si può dire di certe canzoni di Ivano Fossati che molto risentono delle atmosfere narrate da Fenoglio».
Su quali libri ti sei formata?
«Negli anni Settanta sono stata influenzata da Sulla strada di Kerouac, dalle poesie di Ferlinghetti e dalle canzoni di Woody Guthrie. Mentre Questa terra è la mia terra resta un capolavoro, rileggendo Sulla strada ho dovuto ricredermi. Mi pare un romanzo noioso».
Ti turba cambiare giudizio?
«No, affatto. Su alcune cose, che magari ti sono enormemente piaciute, ci vedi trent’anni dopo tutta la patina del tempo. E allora esclami: ma come ho fatto a entusiasmarmi per un libro o un film? Ma è così che funziona: cambiamo e questo è un bene. Così come è un bene trovarsi interessi nuovi».
I tuoi quali sono?
«Musica a parte, ho sviluppato la passione per la fotografia. L’ho scoperta qualche anno fa. Ero a New York con il mio compagno e dopo un concerto siamo entrati in un negozio di macchine fotografiche. Un po’ per gioco e forse per curiosità, ne ho comprata una. Era appena piovuto e su quell’asfalto vetrificato, le macchine sembrava che si rispecchiassero. Feci una foto e mi sembrò di entrare in un altro mondo».
Cos’è che ti piace della fotografia?
«È banale, ma è l’attimo che mi seduce. Come illudermi di fermare il tempo. Per questo amo fotografare più le persone che i paesaggi. Mi piace lo scatto rubato. Ed è come se la mobilità di un volto o una postura improvvisa continuassero ad esistere, al di là dell’istante che li ha generati. Quando fotografo mi sento ladra di vite».
Come vivi il tempo trascorso?
«Penso che la natura ci abbia fornito gli strumenti per sopravvivere al tempo passato. Provo a tenere, nel mio setaccio mentale, solo le cose belle, le brutte tendo a dimenticarle. Per questo non sono rancorosa, vendicativa e neppure nostalgica. Poi è chiaro di errori ne ho commessi, storie d’amore che potevano essere evitate, situazioni nelle quali non avrei voluto trovarmi. Ma alla fine quello che conta è come hai vissuto e superato tutto questo».
Non ho capito se ti senti contenta per come sei.
«Lo sono, nonostante il periodo che stiamo trascorrendo. Credo di essere una privilegiata. Faccio uno dei più bei mestieri che esistano. Ci sono persone che mi amano e che vengono ai concerti, almeno fino a quando li si poteva fare, e mostrano entusiasmo.
Cosa dovrei chiedere di più?».
Sei mai colta dal dubbio che tutto questo possa finire?
«L’ho messo in conto, ma so anche che il mio percorso artistico ha ancora un cammino davanti.
Amo il mio lavoro, ma ti assicuro che non è la sola cosa che conti nella mia vita. Lo amo, lo rispetto, lo affronto con onestà e partecipazione, ma non gli ho mai dato l’esclusiva. Se fossi solo una cantante, mi sentirei un oggetto per gli altri. Vado al supermercato o magari in pizzeria. Detesto gli atteggiamenti da diva alata, preferisco avere i piedi per terra».
Dove sei nata?
«A Roma, e confesso di sentirmi profondamente romana, nonostante un padre palermitano e una mamma marchigiana. Era una famiglia di commercianti. Mio padre era stato nella pubblica sicurezza a cavallo e mi ha trasmesso l’amore per questi animali. Da giovane, grazie a mio padre che ha lavorato nel cinema, ho fatto la controfigura in alcuni western, dove si richiedeva una certa maestria nel cavalcare, e sostituito alcune attrici famose in alcune scene pericolose. Tra queste Monica Vitti, Candice Bergen e altre. È stata una parentesi della mia vita».
Quando hai iniziato a cantare?
«In una competizione nel 1968. Ero giovanissima e non mi rendevo conto che quell’anno portava un’idea profonda di cambiamento».
Il cambiamento è una parola che torna spesso nelle tue canzoni. Che valore gli attribuisci?
«Lo penso come una specie di rinuncia alla perennità delle cose e delle situazioni. La natura impone dei cambiamenti e anche l’uomo e la società li richiedono. Spero sempre in uno sviluppo positivo.
Ma da qualche tempo sento crescere i dubbi. Non sono così sicura che si possa cambiare il mondo, è più facile che sia il mondo a cambiare me. Voglio dire che non credo più nei grandi sogni e nelle splendide utopie. Questo non significa rinunciare a combattere».
Attraverso quali mezzi lo fai?
«Il più naturale per me è la musica. Le mie canzoni sono un invito a non rassegnarsi. Non ce la faccio a dire “va tutto bene madama la marchesa”. E quando scrivo certe cose, con i social che ti insultano, dico: chi me lo fa fare. Ma so di non sopportare le ingiustizie, i soprusi e le diseguaglianze. Con questa attitudine ci nasci».
Ti sei anche esposta politicamente.
«Agli entusiasmi iniziali è sopraggiunta la stanchezza. Ultimamente mi accade spesso di restare delusa da una politica nata dall’indignazione e finita nella sopravvivenza quotidiana. Penso che il potere sia più forte di tutto. La sua brama corrompe gli uomini».
Anche le donne?
«Non ci sono tanti esempi di donne inserite in posti chiave. E se penso a una donna che il potere non ha corrotto mi viene in mente Angela Merkel».
Il tuo primo grande successo è stato “Quello che le donne non dicono”, ti riconosci in quella canzone?
«Ha un testo importante e una musica all’altezza. Mi piace cantarla. La prima volta fu nel 1987, uscivamo da anni tosti, impegnati e violenti. Avanzava l’effimero e il riflusso politico, anche nel femminismo, che pure aveva rappresentato un punto fondamentale nella battaglia delle donne».
Ma quella canzone così ricca di galanterie maschili non era un arretramento?
«No, semmai nella lieve ironia suggeriva che potevi anche accettare le attenzioni di un uomo senza dover rinunciare alla battaglia sociale di essere riconosciuta come donna e femminista. Questa canzone entra pienamente nella mia storia musicale e umana. Così come Solo una figlia, che chiude il nuovo album, dove affronto in tutta la sua crudezza il tema del femminicidio. Il dolore inaudito che provoca».
Hai condiviso il tuo lavoro con delle collaborazioni importanti. Con chi ti sei sentita più a tuo agio?
«Sicuramente con Ivano Fossati: ha accompagnato la mia vita e trovo un’affinità elettiva profonda con il lavoro che ha fatto. Poi, tra gli altri, De André, Ruggeri, De Gregori: sono artisti da cui ho imparato tanto. Più recentemente Olivia XX. E poi Lucio Dalla, cui ho dedicato un intero disco. E, anche se non abbiamo mai collaborato, a livello di scrittura è uno degli artisti che ho amato di più».
Quale immagine hai di lui?
«Aveva un’eleganza mentale che contrastava nettamente con il suo modo di apparire. Due cose colpivano di Lucio: la grande passione per l’arte e il fatto che non parlava mai di sé. Un’eccezione per noi gente di spettacolo, quasi tutta egoriferita».
Sei molto narcisista?
«No, ma so che devo difendere la mia immagine. Non ne ho altre di riserva. E poi, diciamola tutta, non è più tempo di narcisate. Un settore come quello della musica, con migliaia di maestranze a spasso, suggerirebbe una consapevolezza di sé e degli altri completamente diversa».
Siamo entrati nel 2021, cosa ti aspetti?
«Diversamente dagli altri anni mi sento molto intimidita da quello che potrà accadere. È come se stessimo entrando in un’oscurità silenziosa, senza troppi punti di riferimento. Mi torna alla mente il viandante di Caspar David Friedrich che davanti a sé ha la nebbia. Cosa vedo? Noto che i virologi hanno preso il posto degli astrologi. Spero che alla competenza scientifica aggiungano la sobrietà. E non si lascino stregare dalla fama televisiva. Perché tutto il pericolo si concentrerà in questi mesi invernali.
Quanto a me, spero di poter fare il primo concerto a maggio a Bologna. Mi auguro a teatri pieni o anche dimezzati, purché si riparta. Io vado sul palco e canto. Ma dietro a me ci sono decine e decine di persone che lavorano affinché questo sia reso possibile. C’è tantissima professionalità e, se non si riparte, saranno costretti a cercarsi un altro lavoro. Ma non è il tempo per piangersi addosso. Né di masticare il buio. È quando la storia diventa impietosa che siamo chiamati a riscoprire noi stessi e l’attenzione per gli altri».