Luisa, Goffredo Fofi nella prefazione, scrive che ha dato a Carmelo “il quotidiano”, che lui però negava di avere. È così?
«Goffredo credo intendesse la mia capacità di toglierlo dal personaggio che gli era cresciuto intorno. È che Carmelo, non avendo un quotidiano, ripiegava su quello degli altri».
Era complicato?
«Con la vita, ordinariamente intesa, non era mai sceso a patti. Quando ci conoscemmo, mi presentò un programma in cui mi elencava le cose importanti della (sua) vita, che a me sembravano farneticazioni: “Un malato in casa basta e avanza!” “Gli amici, quando ti serve un miliardo te lo danno?”. Il sottotesto era la mancanza di fiducia verso le giovani donne in particolare. In principio era tutto uno studiarci per poterci fidare.
Io credo che avevamo bisogno uno dell’altro, Carmelo cercava qualcuno che si dedicasse solo a lui, io chi mi facesse sentire necessaria. Ma l’attore non l’ha mai fatto, il regista nemmeno, il marito, il fidanzato e il padre neanche per sogno».
Eppure lei racconta il dolore profondo che provava ricordando la morte, ancora bambino, del primo figlio Alessandro avuto dalla prima moglie.
«Ricordava i pomeriggi con lui a giocare a pallone nel corridoio della casa della nonna materna. La morte di quel bambino è stata il primo lutto per lui. Una serie di eventi incomprensibili l’avevano tagliato fuori, era stato avvisato a funerale compiuto con un telegramma. Una cosa crudele».
C’è un altro aspetto che addolcisce la fama siderale del Carmelo “essere non nato”, come lui diceva di sè … ed è il fatto che gli piaceva cucinare, mangiare bene...
«Tolto un caffè abbondante quando si svegliava, dopo mezzogiorno, si mangiava solo a tarda sera. Faceva la spesa al telefono. Comprava dieci chili di pasta, cinquanta scatole di pelati, sei prosciutti interi per volta, chili di carne a Roma, chili di pesce a Otranto di cui era così entusiasta che gli invitati a cui non piaceva lo ingurgitavano in silenzio per non fargli lo sgarbo».
E con gli amici com’era?
«Aveva tante conoscenze, ma di amici pochi. Gli ultimi tempi si era dedicato molto alla scrittura dei suoi due poemi I mal de’ fiori e Leggenda, ancora inedito. Alcuni amici, da cui pretendeva legami esclusivi, erano punti di riferimento. Maurizio Grande per gli studi sulla phoné, Jean-Paul Manganaro, Giancarlo Dotto con cui ha scritto le due biografie. Alberto Signorini, l’amico storico, con il quale discuteva di Stirner, Nietzsche, Gentile, senza essere mai d’accordo, l’antropologo Piergiorgio Giacchè, cui aveva affidato le sorti della sua futura memoria, chiamandolo a presiedere la sua fondazione post-mortem».
La fondazione L’immemoriale che ora non c’è più.
«La Fondazione portava a compimento la volontà testamentaria di Carmelo, che desiderava destinare la sua opera e i suoi beni ad una gestione e fruizione pubblica. Poi le eredi hanno impugnato il testamento e il nuovo presidente optò per la liquidazione».
Quando si dice eredità artistica di Carmelo di cosa si parla?
«Ai tempi della Fondazione c’era stato un inventario: le cose più interessanti erano i volumi con le note autografe, i nastri revox con le registrazioni delle colonne sonore e degli spettacoli live, agende e quaderni, cartelline con progetti, un patrimonio che la Regione Puglia ha avuto in comodato d’uso dalle eredi».
Carmelo Bene è morto il 16 marzo del 2002, lei le era accanto.
«Sono stati sei mesi, senza mai staccarmi. Lui aveva voluto incontrare i suoi amici uno alla volta.
Una notte parlò a lungo, diceva che la morte non era una sconosciuta ma desiderava continuare a vivere. E ha continuato a chiedersi perché fino alla fine. Dopo la sua scomparsa mi è toccata un’eredità pesante, conflitti, cause legali, errori. Ma voglio guardare oltre. Mi è rimasta la bellezza della sua risata. Quello che è venuto dopo è solo il conto da pagare per questo».