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 2021  gennaio 02 Sabato calendario

Carmelo Bene raccontato da Luisa Viglietti

Lo ammirava Jacques Lacan, Gilles Deleuze lo considerava la personalità più importante del nostro tempo, di lui si sono interessati Flaiano, Bertolucci, Klossowki, Testori… Carmelo Bene è stato genio, autorità, Maestro, precursore, eversore, mistico ed eretico, un totem del teatro e della letteratura del 900 ampiamente visitato, storicizzato dagli specialisti (l’ultimo studio, sulla musicalità della sua poetica, Carmelo Bene, fonti della poetica di Leonardo Mancini è appena uscito da Mimesis). «Cosa aggiunge il mio punto di vista, il pezzo della mia storia alla sua storia?» è la domanda da cui parte un libro diverso dagli altri, molto tenero, mosso da altre necessità, Cominciò che era finita, (ed. Dell’Asino, 16 euro), scritto da Luisa Viglietti, la compagna e la collaboratrice degli ultimi otto anni di vita di Carmelo Bene. Si erano conosciuti il 27giugno 1994. Lei, napoletana, era una giovane costumista: viene invitata nella casa sull’Aventino dall’organizzatore, Matteo Bavera. A 57 anni Carmelo vuole celebrare il ritorno alle scene dopo 4 anni di assenza conHamlet suite: le parla del progetto e le dice di appuntarsi le sue indicazioni per i costumi, appurando che la cosa venisse fatta, e le chiede anche un consiglio sugli abiti da indossare quella sera, per la famosa puntata del Costanzo Show di Uno contro tutti. Hanno ventisette anni di differenza, lui ha avuto molte compagne, sposato, separato ma non divorziato da Raffaella Baracchi da cui ha avuto la figlia Salomè, oggi sue eredi. Quello che succederà dopo lo racconta il libro, che è il ritratto di un Bene “immateriale” per autodefinizione ma anche incongruamente disposto alla vita con ironia, grazia, forse intristito dai troppi inganni; generoso con i collaboratori, anche nel pagarli, propenso, sebbene orrificato dalle vacanze, perfino a trascorrere un pomeriggio sulla sdraio nella spiaggia di Otranto.

Luisa, Goffredo Fofi nella prefazione, scrive che ha dato a Carmelo “il quotidiano”, che lui però negava di avere. È così?
«Goffredo credo intendesse la mia capacità di toglierlo dal personaggio che gli era cresciuto intorno. È che Carmelo, non avendo un quotidiano, ripiegava su quello degli altri».
Era complicato?
«Con la vita, ordinariamente intesa, non era mai sceso a patti. Quando ci conoscemmo, mi presentò un programma in cui mi elencava le cose importanti della (sua) vita, che a me sembravano farneticazioni: “Un malato in casa basta e avanza!” “Gli amici, quando ti serve un miliardo te lo danno?”. Il sottotesto era la mancanza di fiducia verso le giovani donne in particolare. In principio era tutto uno studiarci per poterci fidare.
Io credo che avevamo bisogno uno dell’altro, Carmelo cercava qualcuno che si dedicasse solo a lui, io chi mi facesse sentire necessaria. Ma l’attore non l’ha mai fatto, il regista nemmeno, il marito, il fidanzato e il padre neanche per sogno».
Eppure lei racconta il dolore profondo che provava ricordando la morte, ancora bambino, del primo figlio Alessandro avuto dalla prima moglie.
«Ricordava i pomeriggi con lui a giocare a pallone nel corridoio della casa della nonna materna. La morte di quel bambino è stata il primo lutto per lui. Una serie di eventi incomprensibili l’avevano tagliato fuori, era stato avvisato a funerale compiuto con un telegramma. Una cosa crudele».
C’è un altro aspetto che addolcisce la fama siderale del Carmelo “essere non nato”, come lui diceva di sè … ed è il fatto che gli piaceva cucinare, mangiare bene...
«Tolto un caffè abbondante quando si svegliava, dopo mezzogiorno, si mangiava solo a tarda sera. Faceva la spesa al telefono. Comprava dieci chili di pasta, cinquanta scatole di pelati, sei prosciutti interi per volta, chili di carne a Roma, chili di pesce a Otranto di cui era così entusiasta che gli invitati a cui non piaceva lo ingurgitavano in silenzio per non fargli lo sgarbo».
E con gli amici com’era?
«Aveva tante conoscenze, ma di amici pochi. Gli ultimi tempi si era dedicato molto alla scrittura dei suoi due poemi I mal de’ fiori e Leggenda, ancora inedito. Alcuni amici, da cui pretendeva legami esclusivi, erano punti di riferimento. Maurizio Grande per gli studi sulla phoné, Jean-Paul Manganaro, Giancarlo Dotto con cui ha scritto le due biografie. Alberto Signorini, l’amico storico, con il quale discuteva di Stirner, Nietzsche, Gentile, senza essere mai d’accordo, l’antropologo Piergiorgio Giacchè, cui aveva affidato le sorti della sua futura memoria, chiamandolo a presiedere la sua fondazione post-mortem».
La fondazione L’immemoriale che ora non c’è più.
«La Fondazione portava a compimento la volontà testamentaria di Carmelo, che desiderava destinare la sua opera e i suoi beni ad una gestione e fruizione pubblica. Poi le eredi hanno impugnato il testamento e il nuovo presidente optò per la liquidazione».
Quando si dice eredità artistica di Carmelo di cosa si parla?
«Ai tempi della Fondazione c’era stato un inventario: le cose più interessanti erano i volumi con le note autografe, i nastri revox con le registrazioni delle colonne sonore e degli spettacoli live, agende e quaderni, cartelline con progetti, un patrimonio che la Regione Puglia ha avuto in comodato d’uso dalle eredi».
Carmelo Bene è morto il 16 marzo del 2002, lei le era accanto.
«Sono stati sei mesi, senza mai staccarmi. Lui aveva voluto incontrare i suoi amici uno alla volta.
Una notte parlò a lungo, diceva che la morte non era una sconosciuta ma desiderava continuare a vivere. E ha continuato a chiedersi perché fino alla fine. Dopo la sua scomparsa mi è toccata un’eredità pesante, conflitti, cause legali, errori. Ma voglio guardare oltre. Mi è rimasta la bellezza della sua risata. Quello che è venuto dopo è solo il conto da pagare per questo».