Robinson, 2 gennaio 2021
Biografia di Luigi Malerba
Per mettere a fuoco la proteiforme narrativa di Luigi Malerba (1927-2008) bisogna pensare a Buster Keaton e Borges (da lui amati), e poi al personaggio popolaresco di Bertoldo. Comicità algida e straniante, gusto del paradosso e saggezza anarcoide intrisa di follia. Nato in provincia di Parma e trasferitosi presto a Roma, esordisce nel 1963 con i racconti padani e apparentemente “realistici” de La scoperta dell’alfabeto, cronaca visionaria della fine della civiltà contadina. È attratto dalla Cina, dall’anno Mille, dall’impero bizantino, ma anche dalla neoborghesia del boom industriale degli anni ’60. Scrive per il cinema, per la tv, per la pubblicità, aderisce al Gruppo 63, pubblica Il Serpente (1966) e vari altri romanzi, di cui ricordo almeno Il pataffio (1978), Pianeta azzurro (1986) e Le Pietre volanti (1992), oltre a storie per l’infanzia e a una sterminata novellistica. Ha anche fatto l’agricoltore. Qual è il filo rosso della sua produzione? Un “comico” dotato di esuberanza espressiva e capace di ospitare il tragico, l’assurdo della condizione umana. In un Paese come il nostro, dove tutto finisce (e spesso si involgarisce) in commedia e dove prevale un riso coatto – «agli italiani piace solo ridere e far ridere» (Flaiano) – la comicità di Malerba costringe l’intera realtà a deflagrare e svelarsi, con le sue maschere e la sua microfisica del potere (dai despoti sanguinari al grigio burocrate). I suoi personaggi sono maniacali, solitari e paranoici: puoi incontrarli nella concretezza del quotidiano, in famiglia e sul posto di lavoro, altre volte sembrano fatti di fumo, smarriti nelle loro nebbiose fantasticherie, composti dalle lettere dell’alfabeto. Un capitolo a sé è la reinvenzione del Medioevo in una lingua maccheronica ( Il Pataffio è posteriore all’Armata Brancaleone ma Monicelli si ispirò a un film precedente di Malerba, Donne e soldati): un filone sgangherato e farsesco, dove trovano sfogo umori vernacolari, ai limiti della goliardia. Ammiro l’impasto lessicale ma ne viene penalizzato il côté più lunare e quietamente allucinato dell’autore.
Quello di Malerba è uno sperimentalismo formale che nasce dall’urto con le cose, non da una ideologia letteraria o dall’obbligo di essere “nuovi”. La sua è una terapia omeopatica del linguaggio: non tanto lo sfrenato plurilinguismo gaddiano, ormai improponibile, quanto la riproduzione giocosa di tic e banalità dei gerghi contemporanei, come sottolineato da Giulio Ferroni. A Malerba, benché temperamento tragico, privo di illusioni sul mondo (il quale nasce già “obliquo”, e perciò non vale la pena raddrizzarlo), piace giocare: la Italo Svevo edizioni ha ristampato, nella Piccola biblioteca di letteratura inutile, il suo Avventure, un sapiente divertissement in cui fa interagire personaggi di opere diverse, come Sancho Panza e Anna Karenina, don Abbondio e Frankenstein, Bertoldo e Turandot... Un giochino dall’effetto contagioso: leggendolo ho provato a immaginare la Lucia manzoniana che incontra il suo opposto, Emma Bovary! Malerba si autodefiniva un intrepido sperimentatore, però, almeno relativamente, “di successo”. Non ermetico né scontroso, piuttosto colloquiale, anche se con un fondo misantropo. Fondamentale in proposito la collaborazione fittissima con i giornali (dalCorriere a Repubblica), che lo ha “educato” alla misura del testo breve, leggibile, e a non disprezzare il pubblico, dunque a uno stile comunicativo, affabile, mai però subalterno alla lingua inerte della comunicazione attuale.
Ma è soprattutto nel genere italianissimo del racconto che Malerba ha espresso la vocazione ad una surrealtà familiare e perturbante. Recentemente è stato pubblicato il corpus di Tutti i racconti (Mondadori, ben sei raccolte), curato e prefato con acume da Gino Ruozzi. Un repertorio sterminato di manufatti letterari, lavorati con perfezione artigianale, e nutrito di tradizioni diverse: dalla novellistica medievale a Pirandello, Zavattini e Campanile. Sempre in tutti la sorpresa, lo shock, la beffa finale; e un soffio irriducibile di indeterminazione. I temi svariano dall’ecologia al femminismo, dagli scandali politici ai tradimenti, dalla mafia ad un variegato bestiario. Ogni tanto qualcuno si sveglia e torna al mondo reale, ma potrebbe anche essere il contrario. La realtà si dissolve, si disintegra, quasi nebulizzata in una sequenza di sogni, proiezioni e fantasmi, che però hanno conseguenze tangibilmente reali! Si dimostra qui un teorema filosofico caro all’autore, che una volta ebbe a elogiare i fisici quantistici, gli “unici veri filosofi” del nostro tempo poiché hanno scoperto il nulla che si annida nelle microparticelle, «la non esistenza del mondo materiale». Solo qualche – limitatissimo – prelievo dai racconti: l’esterno condiziona l’interiorità (se ci si veste di grigio diventa grigia la propria vita), un rumore della mente si trasforma in un rumore reale, chi diventa asmatico per imitare Proust rifiuta di guarire, l’ombra del coniuge – una volta morto forse per causa nostra – ci si appiccica addosso, alla Rai si è capiservizi di se stessi, un truffatore incallito truffa tutti fingendosi onesto, l’innamorato che non riesce più a pronunciare “Marta” con la “erre” (dice “Matta” e così la perde), e poi l’intelligenza artificiale – in un geniale ribaltamento – può fabbricare un’opera trasgressiva, sintatticamente destrutturata, con un lessico deviante, ma non un bestseller!
A una narrativa italiana come quella contemporanea, ricca di esiti imprevisti ma ossessionata dall’intrattenimento e votata al genere unico del giallo, farebbe bene frequentare di più Malerba. Uno scrittore che ha mostrato il non-senso del mondo continuando a cercarne un senso (sia pure temporaneo), che alla lamentosa deprecatio temporum preferisce lo sberleffo, che ha scardinato la lingua per aiutarci a usarla bene, che qualunque cosa scrivesse si è sempre divertito. Una volta ha confessato: «Io ho bisogno di ridere per ragioni di salute». Ne abbiamo bisogno tutti, anche se conta il modo in cui ridiamo. Nella pagina di Malerba il riso ritrova un proprio valore civile (contro il Potere, per definizione perverso) e diventa l’arma più affilata per conoscere la realtà, o meglio per farla balenare un attimo prima che sparisca.