Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 02 Sabato calendario

Gertrude Stein maestra di tutti

Perché questo romanzo meraviglioso non è una delle letture canoniche del modernismo americano al pari del Grande Gatsby e dei racconti di Hemingway? Perché non è un classico perpetuo nelle storiche collezioni di tascabili italiani? Forse tra le tante risposte sociologiche e letterarie la più importante è questa: è di una sottigliezza tale che sembra quasi manchi di un gancio, di un appiglio. È una cornucopia che nasconde ogni gancio nella propria abbondanza.
Autobiografia di Alice B. Toklas è il raro libro allo stesso tempo rivoluzionario nella forma e di cruciale importanza documentaria. Racconta la vita a Parigi della coppia Gertrude Stein e Alice Toklas, due intellettuali americane che si ritrovano al centro di uno dei momenti più esaltanti della storia dell’arte. Per non citare i soliti passaggi sui salotti e gli studi, eccone uno agreste: «[Stein] ha sempre avuto un debole per i maiali, e per questo Picasso le fece e le donò alcuni deliziosi disegni raffiguranti il figliol prodigo in mezzo al suo gregge di porci. Oltre a uno studio squisito di porci da soli».
Visto che sarebbe assurdo avere in commercio un’edizione di questo libro e non leggerlo, qui non c’è bisogno di dilungarsi sulla vicenda: Stein e il fratello collezionarono Cézanne, Picasso, Matisse e tutta la nuova scena parigina; la casa di Gertrude e Alice a Parigi era frequentata dai migliori pittori e scrittori; Stein scrisse un resoconto di questi decenni parigini di inizio Novecento immaginandosi che a narrare la cronaca fosse la compagna Alice, trasformando così in ipotesi e invenzione la materia più biografica e fattuale. Nella curatissima nuova edizione di Lindau, un saggio di Marzio Capannolo inquadra la cronaca e il gossip con cui Stein dà ritmo al suo romanzo rendendo anche appassionante la questione di quanto, come e perché e con quali conseguenze Stein abbia fuso fatti e ricamo. Qui sono invece cruciali alcune indicazioni sulla forma, per leggere lo spartito di questo libro.
Esistono alcune categorie di lettori molto seri per cui l’idea di Truman Capote che «tutta la letteratura è gossip» non è accettabile. Per Stein è accettabile. Le implicazioni formali ed esistenziali della scelta di parlare della scena parigina dagli occhi della propria compagna sono impressionanti. Il controllo del mezzo è assoluto: immaginate se il narciso Hemingway avesse dovuto mettere in bocca alla moglie scrittrice Martha Gelhorn dei complimenti a se stesso; o se l’insicuro Fitzgerald avesse provato a dare voce a Zelda… Ecco come Stein scrive di sé attraverso Toklas. Parlando del pupillo Hemingway, «Alice» scrive: «Spesso i giovani quando hanno appreso [da Stein] tutto quello che possono imparare la accusano di un orgoglio smodato. Lei dice sì naturale. Si rende conto di essere unica nella letteratura inglese della sua epoca. Lo ha sempre saputo e adesso lo ammette anche».
C’è poi l’uso dell’inglese. Stein ha inventato un inglese che è insieme artistico e vernacolare. È l’inglese colloquiale degli americani, ma non fa ventriloquismi neanche quando parrebbe. Suona leggero e snodato, non ossessionato né dalle proprie idee né dai doveri gravosi della letteratura (disse a Hemingway: «le osservazioni non sono letteratura»). La paratassi qui non è povertà ma possibilità di connessioni invisibili e nuove. Basta citare due righe in inglese per capire che possibilità avesse l’inglese americano di superare l’Europa e reinventare le possibilità della prosa: «Mrs. Stein brought with her three little Matisse paintings, the first modern things to cross the Atlantic»: «Mrs Stein portò con sé tre piccoli dipinti di Matisse, le prime opere moderne ad attraversare l’Atlantico», nella traduzione di Massimo Scorsone, che per tutto il libro gioca e rilancia, riporta a Stein una vivacità che il primo traduttore, Cesare Pavese, in molti passaggi smorzò trasformando l’autobiografia in un diario, con dei ritmi piacevolissimi ma non storti come quelli dell’originale. Tradurre questo inglese dev’essere un divertimento cubista. La frase citata, nello specifico, è una meraviglia di stile. In un certo senso, un uso del ritmo che è più giapponese che europeo: questi tre piccoli Matisse, come nuove caravelle, «the first modern things to cross the Atlantic», uno spartiacque filosofico elevato a poesia. Chi ha amato Fitzgerald e Hemingway in originale sentirà la radice comune della ricerca di questi tre autori. Stava nascendo un inglese dalle linee dritte e insieme sognanti, forse imparentato agli schemi del razionalismo.
Infine, un altro grande merito: in questo libro le protagoniste sono felici. «Eravamo occupate a ordinare certe comode poltrone e un comodo divano rivestito di chintz… Impiegammo molto tempo in questo lavoro. Dovevamo distenderci sulle poltrone e sul divano per decidere, e scegliere un chintz che s’intonasse coi quadri, cose tutte che ci riuscirono a meraviglia». A volte il momento estatico e il kairos sono più potenti del dramma. La poesia lo sa, il romanzo di solito no, e quando ci arriva è una gioia.