la Repubblica, 31 dicembre 2020
Le dieci parole del 2020
Tra poco saremo fuori dal 2020. A questo punto dell’anno Gianni Mura con i suoi Cento Nomi salutava vincitori e vinti, offriva spunti, rileggeva lo sport, ma anche il mondo, premiando quelli che lo avevano più convinto.
Nel suo formato (guai a dire format) entrava tutto: formaggi e Tour, record e favole, piccoli e grandi uomini, pastori e scrittori, atleti e cantanti, poeti e macellai, cuochi e presidenti, quelli che si salvano, che non si salvano, che salvano gli altri, e magari difendono un albero, un bosco, una montagna.
La pecora brogna della Lessinia, appena diventata presidio Slow Food, avrebbe trovato posto. Mura premiava i più sconosciuti, i più nascosti, ma anche i nomi affermati che per limpidezza si erano guadagnati la sua stima. Era come Zorro, vendicava i torti di chi magari non aveva ricevuto la giusta attenzione, faceva notare contraddizioni, segnalava le ingiustizie. Tutte insopportabili. Cercava il coraggio, la correttezza, la generosità. In un gol, in una vita, in una cucina.
Noi che non siamo Gianni Mura gli abbiamo voluto dedicare partendo dalle sue iniziali le dieci parole dell’anno. Dieci lettere. Con affetto e nostalgia. Muraglia: asino che scrive. Questo era suo.
GIGANTI. Grandi e piccoli. Quelli che quando se ne vanno è la fine di un mondo. Pezzi di secolo, di continenti, di piaceri perduti. Capaci di cantare, di interpretare umanità, di essere gioco e non solo giocattoli. Mancini, pirati, combattenti, artisti, malati di estrema fantasia, creatori di sospensioni temporali, quelli che vollero (e non) farsi re. Quelli che ci hanno riempito la vita, anzi l’hanno stravolta, che ci hanno tenuto per mano, e fatto cambiare la testa. Pietro Anastasi che fece gol e il suo ’68 regalando l’Europeo (l’unico) all’Italia, Kobe Bryant che si svegliava all’alba per segnare canestri perfetti e ci teneva a rispondervi in italiano, Gianni Mura che in francese per addormentarsi leggeva poesie e che al Tour per Libération «era la miglior importazione dall’Italia dopo Coppi», Stirling Moss che in F1 vinse tanto, ma mai un Mondiale, Pierino Prati che nel ’69 illuminò una notte da Campioni al Bernabeu, Jack Charlton e Nobby Stiles, due dei vecchi Ramsey’s Boys del ’66, Mario Corso che con una magia portava sui campi la malinconia dell’autunno, Sandro Mazzinghi, testardo e guerriero fino all’ultimo pugno, Diego Armando Maradona, eccessivo, ma convinto di tirare giù il pallone e il sole dal cielo, e Paolo Rossi, che fece delirare l’Italia e piangere la ragazza di Ipanema, senza prendersi sul serio. Luis Sepúlveda che nei suoi titoli metteva balene, cani, gatti, topi e gabbianelle, Sergio Zavoli che al centro delle interviste metteva l’uomo, Franca Valeri (nata Alma Franca Maria Norsa, il nome d’arte era un omaggio al poeta francese Paul Valéry) che invece ironizzava su fanciulle e signorine, il fotografo Vito Liverani che fece i suoi primi soldi con i volti dei poveri (carte di identità) e che da ex pugile sapeva prima degli altri da dove arrivavano i colpi. E Si tu t’imagines , Juliette Greco che cantava Raymond Queneau, e Quino che protestava disegnando Mafalda. L’americano Rafer Johnson, oro olimpico nel decathlon a Roma nel ’60, ma soprattutto l’uomo che a Los Angeles disarmò Shiran Shiran, che aveva sparato a Bob Kennedy, si mise la pistola in tasca e andò a casa mentre l’Fbi cercava l’arma del delitto. Lo scozzese Sean Connery e l’inglese John Le Carré: l’unico vero Bond, James Bond e Smiley, la spia da guerra fredda, incerto sul bene e sul male, ma non sui tradimenti della moglie.
ITALIA. Una striscia di 22 partite utili, con 17 successi e 5 pareggi. È la Nazionale di Roberto Mancini. L’Italia è tornata a esserci, ad alzare la testa. Era sparita, niente Mondiali di Russia del 2018, un’estate ad applaudire gli altri al grido: ridateci gli azzurri. E il ct Mancini ce l’ha ridata, sperimentando molto, allargando le maglie, cercando qualità. In difesa Acerbi (32 anni), che non si è arreso al tumore e figuriamoci se lo fa con gli avversari, è sempre più leader, a centrocampo Barella, 23 anni, corre all’infinito e Locatelli, 22, apparecchia e sparecchia. Belotti e Immobile sono l’Italia all’attacco. Evani, vice dalla lunga gavetta, è diventato ct per tre partite in sostituzione di Mancini. Un ottimo reggente.
ALLENATORI. Non gli special One, ma i normal Two. Quelli che non sbraitano, che non si credono inventori, ma riescono a farsi capire, senza darsi arie da celebrità. Il titolo dell’anno va a Hans-Dieter Flick, che alla guida del Bayern Monaco ha vinto Champions League, Bundesliga e Coppa di Germania. Non è stato un grande calciatore, da coach ha criticato il troppo difensivista Trapattoni, ha chiesto la rimozione immediata di certi striscioni sconci, ha vinto un Mondiale in Brasile come vice di Löw, ha accettato il posto di assistente al Bayern («Il ruolo ideale per me») per poi sostituire Kovac. L’allenatore per caso ha vinto tutto e ora ha un contratto fino al 2023. Luca Gotti, 53 anni, tecnico dell’Udinese, è un altro che non sgomita per occupare la panchina. Ex assistente di Donadoni e di Sarri, dice: «Non voglio fare il primo allenatore, non mi interessa. La fama e i soldi non sono una mia priorità». Stefano Pioli che al posto dell’addio piazza la calma del restare e con l’affetto verso i suoi giocatori ne fa un gruppo di testa. Gennaro Gattuso si toglie la benda dall’occhio e dal cuore, e parla della sua malattia, la miastenia oculare: «Voglio dirlo a tutti i ragazzini che non si vedono bene allo specchio: la vita è bella e bisogna affrontarla senza nascondersi».
NUOVE GENERAZIONI. Next Gen (ma si sa che Mura preferiva i termini in italiano). C’è una ragazza di 15 anni che vive a Taranto, dove non ha la piscina olimpica (va a nuotare a Bari), che si è qualificata nella rana per i Giochi di Tokyo con il primato italiano. Si chiama Benedetta Pilato, è vispa, sorride a tutti e soprattutto al suo pappagallo Paco. Al nord c’è un ragazzo di montagna (Alto Adige) con i capelli arancioni che si è trasferito al mare (Bordighera) e che Nadal ha scelto come suo compagno di allenamento per gli Open d’Australia. Si chiama Jannik Sinner, ha 19 anni, e a dispetto del cognome non pecca mai: quest’anno a Sofia è diventato il tennista italiano più giovane a vincere un torneo nell’era Open. Martina Trevisan, 27 anni, è stata brava a fare pace con il suo corpo e le sue ferite. Aveva smesso con il tennis, anche perché era arrivata a pesare 46 chili, causa anoressia. È rinata raggiungendo i quarti al Roland Garros. Larissa Iapichino, 18 anni, salta nella sabbia del lungo (6,80), nel futuro e nel tempo: è doppia figlia d’arte, sua madre Fiona May è stata campionessa mondiale nella stessa specialità e suo padre Gianni primatista italiano del salto con l’asta. Sì, volare. Nel calcio, dopo Haaland (20 anni) il Borussa Dortmund ha già Moukoko (16, il più giovane a esordire in Bundesliga e in Champions), il Barcellona Ansu Fati (18) e Pedri (18).
NG KIM. È una signora di 52 anni la nuova direttrice generale della squadra di baseball dei Miami Marlins. Kimberly J. Ng ha oltre 30 anni di esperienza nel settore. Mai successo prima che una donna (e un’asiatica) salisse a questa carica nello sport professionistico maschile nordamericano. Non era mai nemmeno capitato che un’arbitra, la francese Stéphanie Frappart, 37 anni, fosse designata per una gara di Champions League (Juve-Dinamo Kiev). La vera novità è che in campo non se ne è accorto nessuno. E che, tranne in Italia, nel mondo si guarda alla capacità professionale, non al sesso.
INCIDENTI
Cadute multiple, non cronologiche. Quasi cento al Tour soprattutto nella discesa della Côte de Rimiez. Al Giro di Polonia viene sbattuto a 80 km orari contro le transenne Fabio (in onore di Casartelli) Jakobsen, olandese, 24 anni. Gli danno l’estrema unzione. La fidanzata Delore dirà: «Aveva una faccia rettangolare, senza parte della mascella, ho riconosciuto solo le sopracciglia». Fratture multiple al volto, una corda vocale paralizzata, 130 punti di sutura in faccia, un solo dente. Ma Jakobsen è tornato in sella. Vola per 10 metri nel vuoto, scavalcando un muretto, il belga Evenepoel, nel Giro di Lombardia. La ripresa tv fa paura: il corridore si rompe il bacino, stagione finita. Si frattura e si lacera l’americana Chloé Dygert, 23 anni, campionessa uscente a cronometro, ai Mondiali di ciclismo di Imola. MotoGp: Valentino Rossi in Austria vede la morte quando viene sfiorato dalla moto impazzita di Morbidelli e rientra scosso ai box. La gara d’esordio a Jerez costa cara al testardo Marc Marquez, che cade due volte, operazioni e forfait per tutta la stagione. Il numero totale delle cadute del Motomondiale resta alto (722) anche nell’anomalo campionato 2020. In Formula 1, al primo giro del Gp del Bahrain, la Haas di Romain Grosjean si schianta contro il guardrail a 221 km/h, l’auto si spezza in due, prende fuoco. Il francese rimane tra le fiamme per 28 secondi, cosciente, esce dall’abitacolo, senza scarpa sinistra, con le mani ustionate. Salvato dall’Halo, l’aureola montata sulle vetture a protezione della testa. Ma a fare più male nel momento in cui l’Italia torna a respirare e arriva l’estate è l’incidente (frontale con un camion) al campione paralimpico Alex Zanardi, che paga ancora una volta generosità e voglia di non arrendersi. Una cosa si capisce: la vita è carogna. Una cosa si spera: che Zanardi si vendichi.
MILITANZA. Come cantava Mina: «Non gioco più, me ne vado». Lo sport è uscito dal campo, ha guardato fuori e ha detto: basta, non facciamo i buffoni mentre nelle strade ammazzano. Le finali Nba sono state interrotte, lo sport professionistico americano anche. Le star mondiali si sono inginocchiate, si sono impegnate contro il razzismo e in Usa hanno incoraggiato l’affluenza al voto. Non solo LeBron, non solo Hamilton, non solo Naomi Osaka, non solo Rashford, per la battaglia dei pasti ai bambini, non solo Keita Baldé e il suo aiuto agli stagionali senegalesi. Lukaku è stato un totem (35 gol nell’Inter tra campionato e Coppe) e il primo in Italia a fare il gesto simbolico del ginocchio a terra. Per la prima volta i giocatori di due squadre (Paris Saint-Germain e l’Istanbul Basaksehir) hanno deciso di uscire dal campo per un epiteto razzista.
UNO. I numeri uno lo sono perché sono diversi. Perché sentono e vogliono di più. Loro non saranno mai la Generazione Perduta. Messi, 33 anni, con la valigia in mano, scontento del Barcellona, quest’anno con 644 gol ha superato Pelé e battuto il record di reti nella stessa squadra che durava da 46 stagioni. Cristiano Ronaldo, 35 anni, è da venti che la butta dentro e in quest’anno solare con la Juve è arrivato a 41 reti in 38 partite. Zlatan Ibrahimovic, 39, da gennaio ha segnato 22 gol nel Milan ma soprattutto ha dato la carica nello spogliatoio. L’inglese Lewis Hamilton, vegano, da domani Sir, con un bulldog con profilo social, ha raggiunto Michael Schumacher per titoli mondiali (7) e lo ha superato per gare vinte (95-91). E, primo e unico pilota nero, ha fatto inginocchiare la bianchissima F1. LeBron James, 36 anni, 4 volte campione Nba e Atleta dell’anno, continua a reggere l’urto degli altri colossi più giovani, a guidare i Lakers e a voler essere un’ispirazione “fuori”. E dove la mettiamo la magnifica ossessione di Nadal, Federer e Djokovic, 106 anni in tre? Giocano come se il buio non dovesse mai arrivare.
RENATE. È un paese di 4 mila abitanti tra Monza e Como. La sua squadra gioca coi colori nerazzurri. Il Renate trascinato da Galuppini (Francesco), guida il girone A della Serie C, il club ha puntato sul “chilometro zero” per ogni incarico tecnico e dirigenziale: Massimo Crippa, ex mediano di Napoli e Parma, direttore generale, è di Seregno, l’allenatore Aimo Diana, bresciano, vive da tempo a Como. Le partite in casa sono tutte una (piccola) trasferta, visto che le giocano a Meda, 20 chilometri più a sud. Una piccola realtà che non vuole finire in una favola, ma in B.
ATLETICA. Sarà stato il regime da prigionieri in casa, ma quest’anno tutti hanno corso come pazzi. In pista e su strada. Uomini e donne. In Polonia i Mondiali di mezza maratona a Gdynia sono terminati con un record del mondo, 20 primati nazionali e 133 personali. L’anno è stato aperto e chiuso da grandi risultati: nell’asta è salito al coperto, quando ancora il virus non era un nemico ufficiale, il giovane talento svedese Armand Duplantis che ha toccato i 6,17 e 6,18 metri (con l’aggiunta del 6,15 dell’Olimpico, miglior risultato di sempre all’aperto. L’ugandese Joshua Cheptegei ha realizzato l’accoppiata record su 5000 e 10000. «Queste scarpe sono fatte per camminare », cantava Nancy Sinatra, ma forse il ritornello dovrebbe cambiare e diventare «per volare». Perché i modelli di nuova generazione con la suola in carbonio e il rialzo fino a 40 millimetri migliorano le prestazioni nella misura del 4-5 per cento. E sono un prodotto di massa, a differenza dei costumoni (ora proibiti) che rivoluzionarono il nuoto. Bastano 200 dollari per le scarpe magiche. Buona corsa a tutti.