la Repubblica, 31 dicembre 2020
I 100 anni di Sciascia
Non c’è quasi racconto o romanzo di Leonardo Sciascia – di cui nel 2021 ricorre il centenario – che non contenga il riferimento a un’immagine: citazioni figurative di quadri e fotografie, di stampe e incisioni, e anche di film. Molti suoi lettori ricorderanno come al centro di Todo modo vi sia un quadro di Rutilio Manetti, La tentazione di Sant’Antonio del 1630, posto nella cripta dell’eremo di Zafer dove si trovano per gli esercizi spirituali i capi democristiani. Li guida don Gaetano, sacerdote che indossa un paio di occhiali a pince-nez del tutto simili a quelli posti sul naso di Satana nella pittura. Il protagonista di questo giallo senza soluzione, nonché voce narrante della storia, è un pittore che ricorda da vicino Renato Guttuso. Ed è stato un altro pittore, Fabrizio Clerici, che nell’estate del 1973 ha condotto l’amico Leonardo in un eremo senese dove vede una copia della Tentazione di Manetti, da cui sortisce l’idea della storia. La lista degli artisti suoi amici per cui scrisse non è lunga, ma neppure breve: Bruno Caruso, Fabrizio Clerici, Mino Maccari, Renato Guttuso, Edo Janich, Toni Zancanaro, Elio Greco, Aldo Pecoraino, Piero Guccione.
Poi ci sono le immagini per tante copertine della collana “Memoria” da Sellerio, e non solo lì, che lo scrittore siciliano ha scelto. Appassionato di incisioni e acqueforti Sciascia cominciò a comprarle per sé e a donarle agli amici appena poté permetterselo per i proventi derivanti dai romanzi. Così frequentò botteghe d’arte e antiquari e finì per definirsi amateur d’images. Lo stretto rapporto tra visualità e scrittura ha dunque una grande importanza nel suo lavoro letterario. Per quanto sia stato un appassionato e un intenditore d’arte, in particolare di cose siciliane, Sciascia si è sempre definito un “dilettante”, ovvero uno che trae piacere e dà piacere. Sciascia è un autodidatta, così lo sono stati Calvino, la cui vera università fu l’Einaudi, e Pasolini, che, per quanto laureato, è stato a suo modo un geniale autodidatta, e anche Fenoglio, che come Sciascia alla laurea non arrivò mai. Questo spiega il modo così poco convenzionale, a tratti istintivo, libero e problematico, con cui lo scrittore siciliano ha scritto d’arte, che in definitiva ha usato più come un “oggetto” per immaginare, pensare e scrivere, che come argomento di studio. C’era in lui la propensione ad essere un erudito, che bene s’adattava alla sua capacità letteraria di scovare indizi e collegare temi e personaggi, di passare dal particolare al generale, e mai viceversa, tipica degli scrittori indiziari.
Come hanno segnalato vari amici e studiosi, Sciascia non affronta mai direttamente le singole opere di cui scrive, ma mira alla ricostruzione dell’ambiente in cui sono nate, racconta chi le ha fatte, più antropologo e sociologo che critico. Tra tutte le arti quella che ha catturato maggiormente la sua l’attenzione è la fotografia, che non a caso indicò come un’arte cui non era stata assegnata una propria musa. Tra i fotografi di cui ha scritto ci sono Giuseppe Leone, Melo Minnella, Lisetta Carmi, e soprattutto Enzo Sellerio e Ferdinando Scianna; quest’ultimo poi è stato il fotografo cui ha dedicato più attenzione a partire dal 1965, dal libro Feste religiose in Sicilia. Poi anche Bill Brandt, Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, tre autori per cui nutriva una particolare ammirazione. Perché proprio la fotografia? Prima di tutto perché più della pittura la fotografia sembra parlare della realtà, e la “realtà” è il mistero da svelare nell’opera di Sciascia: inafferrabile, incomprensibile, contraddittoria, misteriosa; è luogo in cui verità e menzogna s’affrontano senza fine. Inoltre, la fotografia sembra a Sciascia quella che più a che fare con la letteratura. Lo interessa in particolare il ritratto, come mostra lo scritto Il ritratto fotografico come entelechia, ora in Fatti diversi di storia letteraria e civile.
In quello scritto parte dalla lettura della Camera chiara di Roland Barthes. Lo scrittore francese è alla ricerca della vera immagine della madre, la verità del suo volto, e la scopre in un’immagine di lei bambina. Quella che insegue, scrive Sciascia, non è la somiglianza fisica della madre, ma quella che egli chiama entelechia, termine coniato da Aristotele che designa lo stato di perfezione; meglio: il compiuto, l’intero di un ente che ha raggiunto il suo fine attuando ciò che era in potenza. L’intuizione gli è balenata ripensando alle immagini di Pasolini che gli avevano mostrato, quelle scattate da Pino Pederiali, le sue ultime: a Sabaudia dove il poeta passeggia, nel rifugio della Torre di Chia, dove scrive al tavolo o appare nudo nella propria stanza. Gli viene fatto di pensare a una frase: «un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente». L’ha letta in un’opera di Hoffmansthal. Diventa per lui il senso stesso di questa arte senza musa. Ad attrarlo è ciò che la fotografia contiene riguardo al destino, il passato ma anche il futuro che l’immagine contiene in potenza. Destino è una parola chiave in Sciascia che si connette a un altro termine, identità, come s’evidenzia nella mostra da lui ispirata di ritratti fotografici nel 1987, Ignoto a me stesso, da Poe a Borges. In ognuno di questi scrittori, in definitiva suoi alter-ego, si condensa l’idea di un tempo che compendia il loro destino al di là della morte.
Nella prefazione al catalogo pubblicato da Bompiani scrive: «lo scrittore è tra gli uomini il più ignoto a se stesso». Sul ruolo che la morte ha nell’opera di Sciascia si è scritto molto e questo è senza dubbio il suo tema dominante. Non la morte come oscurità. Nel Giorno della civetta la morte non è il buio, bensì la luce: il chiarchiaro, come spiega il brigadiere al capitano Bellodi («al chiarchiaro ci incontreremo tutti – ed aggiunse che forse voleva dire ci incontreremo tutti nella morte»). Bianco e nero è il rettangolo su cui appare il suo ritratto in tante immagini, quel ritratto in cui a stento si riconosceva, pur sapendo di essere pirandellianamente lui stesso.