la Repubblica, 30 dicembre 2020
Le 500 panchine del Cholo Simeone
Quando si sono incrociati all’Inter, alla fine degli anni 90, Diego Simeone soffriva in silenzio l’atteggiamento col quale Ronaldo, la grande stella della squadra, affrontava i minuti che precedono l’ingresso in campo. L’attitudine del Cholo in certi momenti era quella di Russell Crowe nel Gladiatoreprima di entrare nell’arena: non una sillaba, semmai una preghiera a fior di labbra, non uno sguardo diretto agli avversari, semmai un’occhiata obliqua a far balenare le pupille infiammate. Ronaldo invece rideva e scherzava con chi di lì a poco gli avrebbe martoriato le caviglie, tanto sapeva che gli sarebbe bastato un attimo di distrazione per vendicarsi. Simeone l’ha raccontato tempo fa al Grafico in una lunga intervista rivelatrice: dice di aver amato Ronaldo per le partite che gli faceva vincere, ma di averne odiato la visione serena e divertita del gioco. Per il Cholo il calcio è una guerra.
Il 23 dicembre del 2011 – nove anni e sette giorni fa – l’Atletico Madrid annunciò il suo ingaggio al posto di Gregorio Manzano, la cui squadra languiva in Liga al decimo posto. Simeone chiuse il campionato quinto, ma vinse l’Europa League battendo in finale l’Athletic di Bielsa. Da lì in poi ha aggiunto al palmarès una Liga, un’altra Europa League, due Supercoppe europee e una spagnola, una copa del Rey e due finali di Champions perse sempre dal Real, una volta ai supplementari (e al 93’ era ancora avanti 1-0...) e l’altra ai rigori. In nove stagioni non è mai sceso dal podio della Liga, male che andasse finiva terzo, e questo in una squadra che non vinceva nulla dal 1996, quando in campo a guidarla c’era peraltro lui. Non perdete tempo a cercare un altro uomo che abbia cambiato in questo modo il destino di un club: non esiste.È anche grazie alla quantità di denari incassati vendendo i giocatori da lui valorizzati se l’Atletico ha potuto abbandonare il vecchio e fatiscente (e affascinante) stadio “Vicente Calderon” – che il Cholo amava per il modo in cui la luce del sole, al tramonto, illuminava i seggiolini biancorossi – per il modernissimo e asettico Wanda Metropolitano. Ah, in base all’ultimo contratto – che scade nel 2022 – il lavoro di Simeone viene ripagato da un compenso netto, 24 milioni di euro annui, che ne fa il tecnico più pagato del mondo.
Questa sera l’Atletico riceve il Getafe. In classifica è primo alla pari col Real ma ha giocato due partite in meno e dunque può immaginarsi solo, avanti fino a sei punti e soprattutto in pieno combat mode lì dove il Real, unico a superarlo fin qui, ha trovato soltanto a dicembre una decente velocità di crociera e il Barça continua a dibattersi nelle spire del caso-Messi. Stasera Simeone guida i colchoneros dalla panchina – meglio sarebbe dire da bordo campo perché come al solito sarà lì a interpretare il match tipo i patiti di Rocky Horror Picture Show — per la cinquecentesima volta. Il prezioso 2-0 ottenuto prima di Natale a San Sebastiano, in casa dell’ormai normalizzata Real Sociedad, è stata la vittoria numero 300 del ciclo. Per arrivare alla stessa cifra l’altro mito del club biancorosso, Luis Aragonés, di partite ne aveva impiegate 587.
Non sono state soltanto rose. Neanche un anno fa l’Atletico arrivò al lockdown in sesta posizione, e col ritorno di Champions col Liverpool da giocare nel clima irresponsabile di quei giorni, quando si consentì che Anfield venisse riempito di gente – spagnoli in trasferta compresi – malgrado in altri Paesi (l’Italia, per esempio) l’impatto del virus fosse ormai acclarato. Considerato all’epoca pressoché imbattibile, il Liverpool rese nei 90 minuti l’1-0 dell’andata e andò avanti 2-0 all’inizio dei supplementari, ma venne travolto dalla reazione dell’Atletico, che dopo essersi difeso fino allo stremo delle forze fu capace di trovare due brillanti contropiede di Llorente e il colpo di mannaia finale di Morata. È la partita fondante del nuovo Atletico, quella. Perché da una parte persino quel piacione di Klopp riuscì a stento a contenersi («devo accettare la sconfitta, ma mi chiedo perché una squadra così ricca di campioni giochi solo a distruggere»: ti sei risposto da solo, Jürgen), e dall’altra lo stesso Simeone iniziò a cambiare qualcosa del suo stile iper-difensivo. La corsa di testa di questo campionato, per esempio, è segnata dal solito numero ridicolo di gol subiti, appena 5 come in tutta Europa soltanto i Rangers, lo Sturm Graz e l’Olympiacos (il Lipsia a 9 è l’unica altra iscritta ai cinque campionati maggiori a non essere ancora in doppia cifra); ma anche da un rendimento offensivo discreto, 26 gol segnati, e da alcuni indicatori di maggiore controllo del gioco: un possesso palla al di là del guado (54%, ad Anfield era stato il 28) e l’84% dei passaggi completati (nella battaglia di Liverpool si erano fermati al 59). La necessità di giocare più alti per non sfiancare Suarez in inutili rientri è parte della spiegazione. Ce n’è un’altra, ma prima viene la notizia della separazione ufficiale da Diego Costa, libero da ieri di trovarsi un’altra squadra (gratis per tutti tranne che per Real, Barça e Siviglia, che eventualmente dovrebbero sborsare 15 milioni). Fra i possibili sostituti gira il nome di Arkadiusz Milik.
Il secondo passaggio di Diego Costa dopo l’avventura al Chelsea non è andato bene: troppi infortuni. Con la sua uscita se ne va l’ultimo pretoriano della prima ora dopo gli addii di Godin, Juanfran e Filipe Luis, ed è facile immaginare che Simeone voglia approfittarne per sviluppare i talenti: João Felix dopo Griezmann, Llorente dopo Rodri, Carrasco rientrato dalla fuga cinese. Sanno tutti di dover correre, per sopravvivere nell’Atletico, perché il massimo sforzo – predica il Cholo – non è mai negoziabile. Nei nove anni di successi Simeone è stato tormentato dal pregiudizio che il calcio offensivo sia più puro di quello difensivo, e chi giochi in contropiede a palla lunga sia in qualche modo da biasimare. Beh, a vederli uscire dal campo come zombi dopo un allenamento tattico, non si direbbe che i giocatori dell’Atletico lavorino poco. Ha messo a posto un po’ di statistiche da fighetti, il Cholo, ma la sua resta una magia nera come il solito vestito. Total black, cinquecento volte oggi.