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 2020  dicembre 30 Mercoledì calendario

Biografia di Furio Colombo raccontata da lui stesso

«Se ti capita, come a me, di nascere il 1 gennaio, sarà il capodanno a prevalere sul compleanno. Ma stavolta ne faccio novanta tondi – che dici? – forse qualcosa da raccontare ce l’abbiamo…».
Accidenti, Furio Colombo, se ne hai da raccontare! Per esempio: con chi hai festeggiato i tuoi trent’anni nel 1961? Ti do un aiutino, eri all’Hotel Nacional de l’Avana.
«Ma certo, venne lì Che Guevara e ci scarrozzò su un’automobilaccia americana, con frenate improvvise in giro per la città su strade piene di buche. Con me c’erano Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Françoise Sagan, venuti a festeggiare il primo anniversario della rivoluzione cubana. Con il Che arrivammo sulla terrazza di un vecchio palazzo coloniale da cui Fidel Castro tenne il suo discorso. E lì conobbi anche Camilo Cienfuegos».
Beato te. Dall’incredibile galleria di incontri che hai raccolto in La scoperta dell’America (Aragno) apprendo che a New York avevi già intervistato Eleonor Roosevelt, preso il caffè con Marilyn Monroe, stretto amicizia con Martin Luther King e i Kennedy.
«Per scoprire quell’America, che fin da bambino identificavo col mito della libertà, avevo lasciato un’ottima posizione al telegiornale della Rai e fatto mia la sfida di un imprenditore illuminato, Adriano Olivetti».
In Rai eri entrato nel 1954 a Torino vincendo un concorso insieme ai tuoi inseparabili amici Umberto Eco e Gianni Vattimo. Il giornalismo era la vostra vocazione?
«Macché, quel concorso lo avevamo fatto per gioco. La mia passione era la letteratura, la loro era la filosofia. Umberto era stato fra i primi italiani a leggere Joyce e ci spronava a imitarlo. Non cercavamo un lavoro, lo avevamo già: eravamo curiosi. Ci attraeva la nascita di un media radicalmente nuovo, la televisione, con la medesima forza attrattiva esercitata oggi da internet».
E allora perché cinque anni dopo ti lasci convincere da Adriano Olivetti alla nuova avventura?
«Perché Olivetti era un uomo straordinario, non solo per capacità imprenditoriale ma per visione sociale. Lo incontravo nella sede romana di piazza di Spagna, dove lui arrivava da Ivrea come si trattasse di un’ambasciata in terra straniera. Gli intimarono di cedere le azioni dell’Espresso altrimenti lo Stato italiano non avrebbe più comprato le sue macchine per scrivere. Lo fece a malincuore, cercava nuovi orizzonti».
Hai seguito i Beatles sull’Himalaya in compagnia di Mia Farrow e Donovan. Hai dialogato alla New School for Social Research con Cassius Clay divenuto Muhammad Ali. Ma davvero hai avuto parte anche nel successo planetario di Blowin’ in the Wind?
«Non esageriamo. Nel 1963 Bob Dylan suonava in un club minore e le sue canzoni non passavano per radio. Io conoscevo bene Mary Travers, del trio Peter, Paul & Mary. Li portai ad ascoltare Bob, ingrugnito come al solito, e loro decisero al volo di incidere quel brano, rendendolo celebre».
Beh, oggi possiamo dirlo: con Mary Travers, così come in seguito con Joan Baez, la vostra fu una storia d’amore.
«Ho fatto mia una regola di Gianni Agnelli: parlo volentieri con le donne, ma non parlo di donne. Del resto io e Alice Oxman, mia moglie, dobbiamo a Joan Baez un regalo di nozze speciale. La incontrammo davanti all’Hotel Park Lane subito dopo la cerimonia e Joan ci invitò a seguirla al concerto di Woodstock. Era il 15 agosto 1969».
Torneremo sul tuo rapporto con Agnelli. Ma prima fammi capire: cosa c’entravi tu con Allen Ginsberg e gli artisti ribelli del Village? Eri un giornalista dai modi formali, Carlo Mazzarella ti aveva già paragonato a “uno studente pakistano con la borsa di studio”.
«Non ho mai recitato la parte del militante, sarebbe stata una fake. Sapevo che prima o poi me ne sarei andato, viaggiare era la mia vera passione. Un legame più solido si stabilì con Martin Luther King. Ancora pochi giorni fa Andrew Young, che fu il suo più stretto collaboratore, mi ha telefonato per sapere come va in Italia col Covid. Poi mi piaceva discutere con Arthur Miller, intellettuale tormentato, andato a cercarsi guai con Marilyn Monroe. Divenni amico di Bob e Ted Kennedy, e con loro di Arthur Schlesinger. Henry Kissinger invece l’ho conosciuto seguendo un suo corso a Harvard, insieme a Alberto Arbasino».
Intanto in Italia il modello d’impresa olivettiano veniva sconfitto. Prevalse quello gerarchico torinese della Fiat. Dove anche tu saresti approdato, come uomo di fiducia di Gianni Agnelli negli Usa, molti anni dopo, nel 1978. Qualcuno ti sfotteva, per il tuo stile felpato: “Furio Colombo, il Maggiordomo dell’Avvocato”…
«Avranno modo di accorgersi che il garbo può coesistere con l’intransigenza sui principi. Ad Agnelli interessava l’America che frequentavo. Era una specie di monarca costituzionale di fronte a cui feci valere con successo le mie idee. Per esempio quando accettò di pagare un prezzo salato pur di estromettere Gheddafi dall’azionariato Fiat. La considero una mia vittoria».
Anni dopo, nel 2008, tu e il cattolico Andrea Sarubbi foste gli unici deputati del Pd a votare contro il Trattato di amicizia e fraternità con la Libia di Gheddafi.
«Era un accordo vergognoso, stipulato sulla pelle dei migranti. Come del resto il Memorandum sottoscritto da Gentiloni e Minniti nel 2017. A Montecitorio fu D’Alema a intervenire a favore, e io in dissenso. Ma qui stai già arrivando alla mia scelta di impegno politico».
Appunto. Una scelta militante maturata in Italia, e in età matura.
«Venivo da una famiglia antifascista. Per me, così come per Umberto Eco e Gianni Vattimo, era stata la generazione dei partigiani a segnare la via da seguire. Umberto esprimeva una sensibilità a noi comune quando scrisse Il fascismo eterno. Fu la vittoria di Berlusconi a farmi capire che l’Italia di destra imboccava di nuovo quella nefasta direzione. E allora, beh, sono diventato militante: militante antiberlusconiano, pensa che definizione penosa e modesta in un curriculum. Eppure Berlusconi, decidendo di poter fare a meno della reputazione, accettando di perdere subito la faccia di modo che in seguito nessuno potesse rimproverarglielo, fu buon profeta. Come ha dimostrato Trump».
Fu Veltroni nel 2001 a proporti la direzione de l’Unità.
«Dal 1996 ero deputato nelle liste del Pds, ricordo che in campagna elettorale a Torino mi diede una mano anche Aldo Cazzullo. Con il segretario Veltroni eravamo molto amici. Alla Rai avevo lavorato con suo padre. Walter mi vedeva tutto lavoro e buone maniere. Confidava che il mio stile frizzante rimanesse però ben calibrato nel solco della linea di partito. Che equivoco: avevo sì bei modi, ma non mi lasciavo comandare».
All’Unità portasti al tuo fianco Antonio Padellaro.
«Antonio era stato capo della redazione romana del Corriere; a differenza di me sapeva come funziona la macchina di un giornale. Nacque un sodalizio formidabile, anche con la redazione. Mi stupì invece la diffidenza del partito. Noi credevamo di avere a che fare con un partito integralmente di sinistra. Invece scoprimmo che si pretendeva una mitezza tale da coprire rapporti tutto sommato benevoli col governo di destra, da cui scaturissero anche nomine e scelte condivise. Per limitare i danni di non avere il potere. L’Unità si avvicinava alle centomila copie ma rompeva la cautela necessaria, accrescendo i danni di non avere il potere. Fu un successo politico e giornalistico. Non ho rimpianti».
Si può dire che l’esperienza de Il Fatto nasce anche da quella rottura?
«Indubbiamente. C’era bisogno di chi avvertisse quelle premonizioni di regime, perfino di fascismo. A costo di subire, dopo la direzione dell’Unità, un vero e proprio ostracismo, non avendo io le spalle coperte da una cattedra universitaria. Ci hai fatto caso? In Italia nessuno di coloro che hanno perseguito davvero l’antiberlusconismo figura in posizioni di rilievo nella vita pubblica. Mentre invece sono tornati i fascisti, una traiettoria rovesciata».
Così, da Colombo “maggiordomo pakistano di Agnelli”, alla tua bella età ti ritrovi etichettato “Colombo l’estremista”!
«Buffo, vero? Eppure mi pare di essere rimasto sempre la stessa persona moderata e motivata nel perseguire ciò che è giusto. Senza mai denigrare gli altri, ma mettendoci tutta la mia passione. ‘Moderato’ è una definizione in cui mi riconosco volentieri: un moderato trova inaccettabile sopportare la corruzione».
La stessa caricatura toccata a un altro torinese moderato: Luciano Gallino.
«Hai ragione. Luciano era un grande sociologo industriale, anche lui cresciuto alla scuola di Adriano Olivetti, stimato dagli imprenditori forse ancor più che dai sindacalisti. Ma alla fine veniva tacciato di vetero-bolscevismo solo per avere tenuto ferme le sue posizioni, diciamo così, “socialdemocratiche”».
Mi rendo conto di tutto quel che abbiamo tralasciato, nel ripercorrere i tuoi novant’anni. Gli incontri nel mondo del cinema, dell’arte, della letteratura, dell’architettura. Chissà se li ricorderà chi li ha ospitati da Tv7, alla Stampa, a Repubblica.
«Lasciami citare ancora solo l’intervista che mi rilasciò Pier Paolo Pasolini sabato 1 novembre 1975, poche ore prima di essere assassinato. Fu lui a chiedermi di intitolarla: “Perché siamo tutti in pericolo”. Uscì su Tuttolibri. Ma se vuoi sapere cos’era il grande giornalismo di viaggio che un tempo potevamo permetterci, allora prendo ad esempio la lunga traversata della Cina, fino al deserto dei Gobi, in compagnia di Umberto Eco e Jacques Le Goff. A ogni tappa una conferenza al villaggio e un articolo per la Stampa, dettato urlando nel telefono».
Non voglio chiudere con il ricordo più brutto: l’incidente aereo del 1991 durante un atterraggio in Germania, dal quale uscisti illeso. Preferisco farti ancora una domanda da provinciale: Marilyn Monroe era davvero la donna più bella del mondo?
«Lei era un’invenzione perfetta, come certi profumi. Alla fine, quel suo non so che te la faceva sentire lontana. Ma non ho dubbi: la donna più bella del mondo resta Alice. Me la trovai di fronte, incantevole, in un’aula della New York University. Solo poi conobbi il suo nome e la sua intelligenza. È con lei che festeggerò i miei novant’anni».