il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2020
Quante oscenità, Aristofane
“Allora dobbiamo rinunciare al cazzo”. Questa la frase-clou della Lisistrata del greco Aristofane (411 a.C.), ora riproposta dalla Fondazione Lorenzo Valla in una sontuosa edizione per la cura di Franca Perusino e la traduzione di Simone Beta. A pronunciarla, con la sboccata franchezza tipica della commedia antica, ma anche di Catullo e dei graffiti pompeiani, è la protagonista eponima, dinanzi alle donne ateniesi unite in uno sciopero del sesso concertato con le colleghe di Sparta e di Tebe, volto a far recedere i mariti dall’ormai ventennale “guerra del Peloponneso”, e comprensivo di occupazione dell’Acropoli con immediato taglio delle spese militari.
Le reazioni sono da cabaret: compagne che esitano (“piuttosto camminare in mezzo al fuoco”), estorsione di solenni giuramenti (“non solleverò le pantofole persiane verso il soffitto e non me ne starò accucciata come una leonessa sulla grattugia”), tentativi di diserzione (“Per dirla in due parole: abbiamo una voglia matta di scopare”); per non dire della simmetrica, grottesca eccitazione di cittadini e ambasciatori in crisi da astinenza (“questa rigida tensione me lo rende duro come se fosse una mazza ferrata”, annuncia entrando in scena il povero Cinesia, che più tardi chiederà all’araldo spartano: “Ma tu chi sei? Un uomo o Priapo?”). Ma alla fine, la vittoria è certa.
L’utopia della Lisistrata crea un archetipo di straordinaria potenza: nel 2002 lo stesso sciopero fu varato dalle donne liberiane per fermare la guerra civile nel loro Paese (la leader Leymah Gbowee ottenne il Nobel per la pace nel 2011), mentre solo pochi mesi fa Alyssa Milano ha invitato ad analoga astensione contro la nuova legge anti-aborto in Georgia. Riletture e riscritture si sono susseguite a iosa ai tempi nostri, in chiave pacifista (dagli Usa allo Zimbabwe all’Iraq – per la guerra del 2003, in particolare, il “Lysistrata Project” coinvolse attori e attivisti di mezzo mondo) ma anche, sin da fine ‘800, in chiave femminista – è del resto proprio in questa commedia che le Ateniesi si presentano come vere, consapevoli cittadine, rivendicando per sé coraggio, patriottismo e sagacia politica, accennando alla loro segregazione sociale e affermando principi modernissimi del tipo: “Non esiste piacere per gli uomini, se ci costringono a cedere con la forza… Un uomo non potrà mai godere se la sua donna non gode insieme a lui”. Eppure.
Eppure, a onta della sua ricezione moderna, la Lisistrata non è di per sé né pacifista né femminista, né soprattutto porta avanti alcun programma politico “rivoluzionario”. L’azione, primariamente ridanciana, ha ispirato corrive messe in scena da rivista o burlesque, da quella di Maurice Donnay (1892) in cui Lisistrata cede al calore del suo amante, al noto Trapezio di Garinei e Giovannini in piena Guerra Fredda (1958). Le donne, da vere conservatrici, non mirano a una reale presa del potere, né all’affermazione di un diverso ordine politico o ideale, bensì al mero ripristino dell’oikos, dell’amore coniugale, dell’equilibrio sociale provvisoriamente stravolto dalla guerra. Esse riproducono le liturgie del potere maschile, usano metafore tratte dall’ambito della tessitura e della cucina (gli angoli ai quali presto torneranno), e si mostrano apertamente persuase di tutti i topoi misogini: doppiezza, propensione al bere, voglia smodata che si sfoga anche sui falli di cuoio (“il rimedio di pelle per la nostra solitudine”), incapacità “di fare altro che andare con gli uomini e fare figli” (così la versione di Beta, che spesso allunga e chiarifica espressioni greche più dense e criptiche). Prova ne sia che, dinanzi all’abile orazione finale con cui la sagace Lisistrata denuncia gli errori passati e presenti di Ateniesi e Spartani, gli ambasciatori reagiscono con una condiscendenza degna di certi osceni commenti ai discorsi di Azzolina, Boldrini, Carfagna etc.: “Sì, ci comportiamo in modo ingiusto. Ma quanto è bello questo culo… non ho parole!”; “Noi la vogliamo eccome, la pace – se però qualcuno ci vuole dare il buco”…
La Lisistrata, “una commedia gigantesca, universale, in cui danzano assieme dèi e uomini e bestie, in cui si abbracciano grazia e rudezza” (Hofmannstahl), andò in scena nel febbraio del critico anno 411, pochi mesi prima del colpo di Stato che sovvertì il regime democratico. In aprile Aristofane mise in scena un’altra pièce al femminile, le Donne alle Tesmoforie, in cui un’assemblea delle Ateniesi raccolte al tempio delle dee emana un solenne decreto di condanna del poeta Euripide, reo di aver oltraggiato le donne nelle sue tragedie (la maldestra difesa è affidata a un suo parente, depilato, camuffato e infiltrato tra le donne, ma infine scoperto). Anche in questo testo così libero (appena riproposto da Garzanti), ricco di travestitismo, di doppi sensi e di amplessi sugli altari di Apollo (nel 2000 il Julie Thesmo Show di Mary-Kay Gamel lo riambienta in un talk-show tv tra drag queen e discussioni sul fallocentrismo), Euripide non viene condannato in quanto bugiardo, ma in quanto inopportuno nel descrivere pubblicamente i “reali” difetti delle donne (lussuria, falsità, alcolismo), anziché lodarle come nobili fattrici di figli. Nessun femminismo, dunque, ma solo burla, quando il parente di Euripide viene minacciato (mentre è ancora en travesti) dall’incontenibile Mika: “Ora le depiliamo la vulva, così impara/ a smettere di offendere le donne, essendo donna”. Per ripartire davvero dal pensiero femminile, dopo quest’anno critico, ci vorranno parole nuove, e serie.