Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 29 Martedì calendario

QQAN80 Intervista allo scrittore Michael Rosen

QQAN80

Bentornato, Michael Rosen. Cominciamo dalla fine, che, come in T.S. Eliot, è sempre il nostro punto di partenza? «Oppure partiamo da Ulisse», ribatte lui dalla sua casa di Londra nord: «Sono sceso all’Inferno, ho perso quasi del tutto la vista dall’occhio sinistro, l’udito dall’orecchio sinistro, parte della voce causa tracheotomia, i nomi degli attori dei miei film preferiti e per poco pure due dita dei piedi. Oltre a me stesso, ovviamente».
L’Ade del reduce Rosen, anzi la sua Odissea, è stato il Covid. I primi sintomi lievi («come un’influenza, niente tosse»), il «you are ok» del medico che non convince la moglie Emma, lo strapiombo un giorno all’improvviso: l’intubazione, quasi due mesi di terapia intensiva, il 50% di possibilità di sopravvivere, la partita con la morte come in Bergman, una resurrezione clinica. Nel frattempo — era lo scorso aprile — alle finestre di tutto il mondo, dagli Usa all’Australia, spuntano migliaia di orsacchiotti in sostegno di Rosen. Hashtag #BearHunt, perché la sua opera più famosa è A caccia dell’orso, 1989.
Le cicatrici del coronavirus sono profonde, come occhiaie e rughe che gli scavano il volto. Ora però, il 74enne scrittore e divulgatore inglese, poeta laureato dei bambini e del metrò di Londra dove nei vagoni sfrecciano sue poesie come i London Fields già di Martin Amis e celebrato autore di opere come il Libro triste per suo figlio Eddie morto a 18 anni di meningite nel ‘99, pubblica in italiano Il libro dei giochi (il Saggiatore). Sembra un volume per bambini, i veri destinatari sono gli adulti: perché giocare, anche solo con le parole, è qualcosa che non dovremmo mai (dis)perdere, secondo Rosen. A maggior ragione in era di pandemie, lockdown e atrofie relazionali e cognitive.
E lei alla sua età gioca ancora, Rosen?
«Certo! Per esempio con mio fratello: da piccoli ci sbizzarrivamo al "Who Has the Last Hit", a pizzicarci con regole tutte nostre. Ora proviamo a divertirci al telefono, a parole. Perché il gioco ci distrae, ci stimola, a qualsiasi età. Quando giochiamo, non abbiamo mai paura di fallire. Alla base della scienza, delle arti e della conoscenza ci sono sempre forme di gioco, il quale spesso combacia con la creatività».
Per esempio?
«Le grandi scoperte scientifiche avvengono perché gli scienziati "giocano" e fantasticano con nuove idee e ipotesi. Prenda Alessandro Volta: nel XVIII secolo si pensava che l’elettricità esistesse prevalentemente tra esseri umani e animali. Eppure Volta era certo che potesse essere trasportata tra oggetti inanimati. Allora iniziò a "giocare" con pezzetti di metallo sulla lingua, da lì nacquero i cavi elettrici che collegano il mondo oggi. Oppure Wilfred Owen, il poeta-soldato della Prima guerra mondiale che raccontò gli orrori della trincea: se andate alla British Library scoprirete dai suoi appunti che la vera ispirazione gli venne giocando con le parole su carta. È in quei momenti che viene il meglio di noi stessi: perché non abbiamo paura. Il gioco è uno dei pilastri della nostra civiltà».
E forse mai come nella pandemia ci può essere utile.
«Assolutamente sì. Abbiamo bisogno di pathos, commedia e di una comicità anche triste, per andare avanti. Per me, una delle massime ispirazioni in tal senso è sempre stato il Dario Fo di Mistero buffo , con il povero Zanni che si sazia con una mosca molesta».
Ma quanto è complicato oggi veicolare l’essenza del gioco, anche ai bambini, a causa di restrizioni e distanziamento anti Covid?
«Molto. Parlare e giocare faccia a faccia è la più antica forma di intrattenimento, sin da quando le comunità danzavano in gruppo e discutevano degli dèi dispettosi. Ma passerà presto, spero».
La poesia può aiutarci?
«Ho sempre pensato che i versi si insinuino tra altre forme di arte, magari più popolari, dalla musica alla tv. Niente come la poesia può dare un senso nonostante la sua assurdità beckettiana. Niente ha quell’immediata sintesi, che puoi afferrare al volo per spalancare una parte sconosciuta del mondo e di te stesso. È il senso anche dei miei versi affissi in metropolitana: la poesia è una filosofia portatile, oltre che immortale. "Nessun uomo è un’isola" di John Donne ne è l’esempio perpetuo: pochi versi profondi e universali, anche se scritti quattro secoli fa. Quando suona una campana, lo fa anche per te, perché tutti siamo umanità. E questa pandemia ce lo ha ricordato ancora una volta».
Ora quando sente i negazionisti del Covid che cosa prova?
«Tanta tristezza. Ma anche disgusto. Settimane fa ho avuto una discussione su Twitter con una giornalista inglese, Carole Malone, per la quale molti pazienti di Covid accentuano i loro sintomi. Litighiamo, allora lei: "Michael, io ci credo che tu abbia sofferto molto. Ma hai anche 74 anni…".
Allora capisci la mentalità perversa che serpeggia nella nostra società: se sei improduttivo o "inutile", non vali niente. Tutto questo somiglia ai "capri espiatori" di decenni fa. È fascistoide. Non fascista: fascistoide».
Teme che il divario tra generazioni, che lei ha sempre tenuto insieme meravigliosamente, possa diventare incolmabile a causa del Covid?
«Sarebbe un gravissimo danno alla società, alla memoria, alla comunità, alla coesione sociale. I giovani devono conversare con i vecchi per maturare appieno, e viceversa. Ma se usciremo presto dalla pandemia, i danni non saranno permanenti».
Dopo tre mesi in ospedale e terapia intensiva, ha cambiato idea sulla morte?
«No. Anche perché sono stato quasi sempre incosciente e non l’ho vista, la morte. La differenza è che realizzi di essere estremamente vulnerabil e.
Sprofondi in un costante limbo. E non ne esci più».