Il Messaggero, 28 dicembre 2020
Perché mangiamo con il cervello
A qualcuno - molto raramente in verità – sarà capitato di entrare in un ristorante e restare stupito nel vedere ospiti mangiare con sulla testa un caschetto con tanto di elettrodi, come quelli che si usano per effettuare l’elettroencefalogramma. Sicuramente accanto ci sarà stato un esperto di neurogastrofisica, la branca delle neuroscienze che analizza il cervello mentre si mangia e beve. È la nuova frontiera del marketing di grandi chef e produttori agroalimentari per misurare quanto sia appagante un cibo o un’esperienza al ristorante.
Non basterebbe chiedere se il piatto o il vino sono piaciuti?
«Così interroghiamo direttamente il cervello, avendo un parametro molto più veloce e oggettivo. Ma guardi che i campi di applicazione della neuroscienza sono tantissimi. Dove c’è emozione, ci siamo noi. Nei musei si chiama neuroestetica; neurocinema al cinema; neuroselling per misurare le capacità di chi lavora nel commercio. C’è anche la neuropolitica per capire se le emozioni di chi promette una cosa sono coerenti con quel che dice».
Che strumenti servono?
«Strumentazioni neuroscientifiche come il caschetto posto sulla testa che rileva l’attività elettrica del cervello, oppure l’eye-tracking, cioè una mascherina sugli occhi che rileva movimenti, dilatazione delle pupille, frequenza di chiusura degli occhi e poi la skin conductance, per rilevare la microsudorazione corporea di fronte a uno stimolo. Per l’intensità emotiva usiamo anche degli anelli che contano il battito cardiaco. Infine, il FaceReader, il lettore del viso, analizza come si muovono in modo incontrollato in base alle emozioni i muscoli facciali. Tutto è sincronizzato e i dati vengono incrociati».
Ma il piacere di un piatto non dovrebbe dipendere semplicemente dalla qualità della materia prima e dalla bravura di chi cucina?
«Non è proprio così. La nostra risposta al cibo è guidata da moltissimi fattori che contribuiscono a costruire l’esperienza enogastronomica. Si tratta di stimoli sin dal modo con cui i piatti vengono descritti. Anche le luci, la musica d’ambiente, la forma dei piatti hanno un impatto sulla percezione dei sapori».
Cioè mangiamo col cervello e non con bocca e stomaco?
«Percezione e sensazione sono due cose diverse. La prima è il risultato della somma di vari elementi, tra cui la sensazione. Sono tra il 50 e il 90% le attività del cervello che condizionano la nostra percezione e di conseguenza le nostre decisioni. La risonanza magnetica evidenzia che certi stimoli attivano la parte più antica del cervello – il sistema limbico – che si muove in maniera automatizzata e involontaria. In questa parte del cervello risiedono alcune aree l’amigdala, l’insula, il nucleus accumbens direttamente collegate con le emozioni negative (come paura, disgusto, ansia) o positive (come piacere e gusto) che giungono prima di qualsiasi considerazione razionale».
Prima quanto?
«In appena 13 millisecondi emergono le prime reazioni. Poi il nostro cervello contribuisce, consapevolmente e soprattutto inconsapevolmente, a decifrare ciò che i sensi rilevano, offrendo una realtà a volte molto diversa da ciò che gli otto sensi hanno rilevato».
Scusi, i sensi sono cinque: vista, udito, tatto, gusto e olfatto.
«No, sono otto. Deve aggiungere il senso vestibolare (responsabile della nostra percezione di equilibrio su un piano), quello cinestetico (che permette di percepire il movimento nello spazio del nostro corpo) e quello viscerale che permette di percepire lo stato delle nostre viscere, strettamente legato all’insula, ovvero una ghiandola del sistema limbico che è prevalentemente deputata alla percezione del disgusto».
Qualche esempio concreto, partendo dai colori.
«È stato dimostrato che un colorante può influenzare la percezione del gusto o del sapore rendendolo più intenso. Il colorante verde fa percepire meno la soglia di acidità di una bevanda, aumentando allo stesso tempo la rilevazione della sua dolcezza. Così come l’aggiunta del giallo riduce la percezione sia di acidità che di dolcezza, mentre il rosso ne riduce la sensazione di amarezza. L’uso di colorante alimentare può provocare fino al 10% di dolcezza percepita. Ricordiamoci infine che ciò che definiamo colore è in realtà una percezione che nasce da onde elettromagnetiche di diversa lunghezza d’onda».
Stessa cosa con gli odori?
«Certo, analogamente possiamo dire che non c’è odore nelle molecole che stimolano i nostri recettori. Sono questi che hanno la capacità di riconoscere le caratteristiche delle differenti molecole odorose attivando una specifica parte del cervello. Quella che poi ci fa percepire l’odore».
C’è anche l’effetto legato alle parole, il naming. A volte basta la semplice scelta di un vocabolo o una descrizione più ardita di un piatto per modificare le scelte dei consumatori.
«Un test in Usa ha dimostrato che la stessa identica insalata Pasta Salad ribattezzata Salad with Pasta è stata giudicata più salutare e scelta da chi seguiva una dieta ipocalorica. I nomi servono anche a richiamare autenticità e origine, a evocare storie. Pensi alla nostra pasta con le sarde. I nobili avevano la pasta con la cernia, troppo costosa per i siciliani poveri che la sostituirono con le sarde. E coloro che erano ancora più poveri, non avendo le sarde, si inventarono la pasta con le sarde a mare. Una ricetta, che ha radici antiche e che si prepara senza le sarde fresche, al massimo con delle poverissime acciughe salate. Il nome del piatto evoca positività, manifestando una tragica e ironica soluzione per non ammettere di essere poveri».