il Giornale, 28 dicembre 2020
Biografia di Giorgio Panariello raccontata da lui stesso
È scivolato via dalla vita in questi giorni di festa, nove anni fa. Da solo, al freddo, abbandonato in un cespuglio in riva al mare a Viareggio da amici disgraziati nella notte di Santo Stefano. Si era sentito male e, invece di portarlo all’ospedale, lo avevano lasciato per strada. Lui era Franco. Di cognome Panariello. Come Giorgio. Due fratelli, due destini diversi: Franco perso nella droga, Giorgio attore e showman di successo. Su queste esistenze opposte ma intrecciate, il comico ha scritto il libro «Io sono mio fratello» (edito da Mondadori) già arrivato alla quarta ristampa in poche settimane.
Giorgio, per lei ogni 26 dicembre deve essere una ferita che torna a far male.
«Certo, in quel giorno il mio pensiero va a Franco. Ma soprattutto mi fa rabbia ricordare che non abbiamo più potuto festeggiare insieme. Lui ce l’aveva fatta, era riuscito a curarsi, a uscire dalla droga. Era venuto a casa mia la vigilia di Natale e avevamo passato una bella serata, non voleva neppure un bicchiere di spumante per brindare. Poi a Santo Stefano era andato a far baldoria con questi pseudo amici. Gli è successo qualcosa, ma non è andato in overdose come si era creduto al momento, è morto per ipotermia, di freddo».
Quello del 2011 era uno dei primi Natali trascorsi in tranquillità.
«Sì, dopo tanti anni di burrasca, conflitti, incubi, preoccupazione, angoscia, notti insonni pensando a lui che viveva da barbone, tentativi di recuperarlo, comunità, stavamo cominciando a ricostruire una famiglia. Finalmente potevo dire a quelli che lo conoscevano: ecco mio fratello, ce l’ha fatta. E invece me l’hanno portato via».
Oggi cos’è per lei il Natale?
«Beh, a parte il Covid, adesso lo vivo bene, con la mia fidanzata (Claudia Maria Capellini) e, se possibile, con qualche amico. Ma non ho mai amato queste feste perché mi ricordano quando, dopo la morte dei miei nonni che mi hanno cresciuto, ero solo, vagavo tra i pranzi degli altri, dei miei zii o delle famiglie delle fidanzate, come un re Magio in cerca di una capanna».
Per Franco, l’origine del male è stata la mancanza di una famiglia.
«Lui è cresciuto in un collegio. Come racconto nel libro, mia madre ci ha abbandonati entrambi: prima me che sono nato quando lei aveva 17 anni all’ospedale di Firenze e poi lui l’anno dopo, all’ospedale di Livorno. Mai capito perché: forse voleva entrare nel Guinness dei primati degli abbandoni. I miei nonni, che avevano gravi problemi economici, hanno preso me in casa e hanno mandato lui dalle suore».
Perché questa differenza?
«Mia nonna avrebbe voluto tenerci tutte e due. Ma mio nonno era già infuriato perché doveva farsi carico di me e non capiva perché sua figlia non si prendesse le sue responsabilità, così quando è arrivato un altro bambino non ne ha voluto sapere. Tra l’altro, loro avevano già cinque figli, i miei zii. A Franco è mancato l’affetto e il calore di una famiglia che io invece ho potuto avere, almeno da piccolo. Era seguito a distanza, veniva nella nostra casa di Cinquale (vicino Massa-Carrara) per le vacanze e le feste, per me era un fratello solo ogni tanto».
Lo ha capito quando è cresciuto insieme al fatto che la ma’ e il ba’, quelli che credeva i suoi genitori, erano i suoi nonni?
«Sì, loro, persone semplici, da bambino non mi avevano raccontato nulla, non avevano neppure gli strumenti culturali per farmi capire, mi riempivano di affetto per sopperire alle follie di mia madre. Lei se ne andava in giro per l’Italia e ogni tanto tornava a casa piena di regali, io non sapevo chi fosse questa giovane donna che compariva. Non le ho mai voluto bene perché lei non ne ha mai voluto a me, non mi ha dato l’opportunità di farlo».
Anche Franco, crescendo, ha capito come stavano le cose e si è ribellato.
«Da adolescente non ha più accettato la situazione: quando stava in famiglia per un periodo, per le vacanze, poi non voleva più tornare in collegio, si infuriava. A quel punto è venuto definitivamente a casa, ma non si è mai incanalato in una giusta dimensione di studio o di lavoro. Ha cominciato a sbandare, a frequentare certa gente, a bere, fumare, e poi a drogarsi. Il nonno l’ha cacciato, è andato a dormire in una rimessa fatta di lamiere che c’era nel nostro cortile. E dopo la morte prima della ma’ e poi del ba’ è andata sempre peggio».
Poteva trovarsi lei al posto di suo fratello...
«Infatti. Da questo deriva il titolo che ho dato al libro. Io sono stato solo più fortunato. Nei momenti di disperazione, di povertà, di mancanza di lavoro, mi sono avvicinato al suo giro di amici balordi, anche per condividere con lui qualche momento. Per fortuna davanti all’ago di una siringa, una sera che mi avevano offerto eroina, sono scappato via».
Non ha mai saputo chi fosse suo padre né il padre di Franco.
«Assolutamente no. Non mi è neppure mai interessato, per me mio papà era il ba’. Ricordo ancora che quando ho cominciato a fare tv e Raffaella Carrà o Maria De Filippi mi invitavano a Carramba che sorpresa o a C’è posta per te avevo paura che si presentasse un padre, un fratello o una sorella».
Perché ha deciso di scrivere la vostra storia, adesso, dopo nove anni?
«Questo libro è figlio del lockdown. Chiuso in casa, ho ripreso in mano un monologo dedicato a mio fratello che faceva parte del mio ultimo spettacolo teatrale, La favola mia, che è stato rinviato a causa della pandemia. Per me raccontare questa storia è anche un atto di giustizia nei suoi confronti, perché deve esser chiaro a tutti che non è morto di overdose».
Figlio del lockdown è anche il suo prossimo programma televisivo.
«Sarà uno show in coppia con Marco Giallini con cui ho scoperto di avere molte cose in comune. Andrà in onda a fine gennaio su Raitre. È intitolato Lui è peggio di me: ci stuzzicheremo a vicenda tra musica, sketch e siparietti».
Scrivere l’ha aiutata a liberarsi per sempre dal senso di colpa di essere nato prima di lui?
«Mi ha liberato dalla coda del senso di colpa. Quando, alla fine di tante peripezie e tanti anni vissuti da balordo, Franco ha finalmente deciso di farsi curare, io ero lì pronto ad aiutarlo, ad accompagnarlo in comunità: prima in quella di Muccioli, poi in quella di don Mazzi, dove è riuscito a disintossicarsi completamente. Per cui non ho il rimorso di non averlo aiutato, semmai quello che avrei potuto farlo meglio».
Crede che le sue parole possano essere di conforto? Il libro sta avendo grande successo, segno che viene letto non solo perché scritto da una star.
«Molte persone che hanno vissuto o vivono il mio stesso dramma ci si sono riconosciute. Altre si sono avvicinate curiose di sapere come abbia fatto ad avere successo uno con tante disgrazie addosso, come si riesca a far ridere quando si vive una situazione così disastrosa».
E come ci è riuscito?
«Quando sali su un palco o si accende la telecamera tutto il resto scompare, ci sei solo tu e l’arte, sei totalmente concentrato. Poi quando le luci si spengono, riappaiono i problemi».
Come si fa a sorridere e far sorridere nonostante tutto?
«Comico si nasce. Si può affinare l’arte con la tecnica, ma la verve la devi avere dentro. Io, forse perché sono toscano, ho un salvavita interiore, la capacità di sdrammatizzare. Trovo il risvolto divertente anche nelle situazioni tragiche. Mi ricordo, per esempio, quella volta che mi portai dietro mio fratello in uno dei miei spettacoli in un paese: pagò da bere a tutti quelli che c’erano in piazza con il mio cachet, ed erano anni in cui faticavo a trovare lavoro. Ancora adesso quando mi viene in mente ci rido su».
Come ha influito sul suo modo di essere e sulla sua arte il dramma familiare?
«Direi che mi ha cambiato in meglio. Forse senza quella tragedia sarei diventato lo stesso un bravo comico, ma non avrei avuto quella sensibilità che porto sul palco o in televisione. L’amarezza è alla base della comicità, di più: la tragedia è uno dei migliori combustibili della comicità. Detta così, pare che debba ringraziare Franco di avermi causato tanto dolore. Diciamo che devo ringraziare la vita per avermi fatto diventare quello che sono».
Ma, oltre all’ironia, cosa le ha dato la forza di cambiare il suo destino?
«Avevo dei sogni, degli obiettivi, delle luci da seguire: si chiamavano Verdone, Benigni, Troisi. Fin da piccino sapevo che volevo diventare un artista, lavorare nel mondo dello spettacolo, non sapevo bene in che modo riuscirci, ma non ho mai mollato la speranza. Ho passato molti anni ad arrancare, a non avere soldi neppure per la benzina della macchina che mi prestava mia zia Fortunata, a elemosinare serate, finché non è arrivato il successo, la compagnia di Vernice fresca, il teatro, i film, la televisione, il sabato sera di Raiuno».
A quel punto ha avuto anche la possibilità economica e la serenità per aiutare Franco.
«Sì. Dopo gli anni giovanili vissuti più o meno insieme o parallelamente in Versilia, avevo dovuto allontanarlo, per salvare me stesso. Me ne ero andato dalla nostra casa, che lui ha trasformato subito in una comune, in un centro di spaccio, e sono andato in un bungalow vicino al mare. Lui continuava a perseguitarmi, appariva come un fantasma, si presentava improvvisamente in camerino prima di uno spettacolo teatrale chiedendomi soldi, glieli davo per timore che facesse casino. Immaginavo la gente che diceva: Guardalo là, guadagna un mucchio di soldi a dire due cazzate e lascia suo fratello in strada come un mendicante. Poi, quando ha deciso di disintossicarsi, l’ho aiutato con tutti i mezzi».
Dunque, cosa si sente di consigliare a chi si trova in situazioni del genere?
«È difficile da dire a un padre o a una madre, ma questi ragazzi bisogna lasciarli andare al loro destino, se non toccano il fondo non proveranno mai a risalire. Se sanno che a casa trovano sempre una minestra e due soldi non avranno mai la spinta per cambiare. Conosco genitori che per stare dietro a un figlio drogato si sono dimenticati degli altri figli o si sono distrutti».
Ha perdonato le persone che non lo hanno soccorso?
«E come potrei perdonare? Non mi hanno mai chiamato, mai cercato. Sono ancora arrabbiato, non per quello che hanno fatto, ma per quello che non hanno fatto. So che sono figli di famiglie benestanti, non dei disgraziati. Alla fine dei processi, hanno avuto pene leggere, sei mesi per omissione di soccorso. Ma la condanna ce l’avranno per tutta la vita, si porteranno dietro il rimorso per sempre».
Ora la vita è più leggera?
«Ci sono stati momenti in cui avrei voluto che uscisse dalla mia vita, altri in cui era lì lì per finire male, come accade a tanti ragazzi in queste situazioni ed ero preparato al peggio. Ma quando è successo non me l’aspettavo. Era il momento di ricostruire, di fare viaggi insieme, di goderci la vita. E, invece, quella mattina del 27 dicembre ha dovuto chiamarmi Carlo Conti per dirmi quel che era successo, da Viareggio avevano telefonato a lui sapendo che è mio amico. Al funerale c’erano tantissime persone, anche gente che Franco aveva truffato, derubato, insultato, perché gli volevano tutti bene, sapeva farsi amare nonostante tutto».
Cosa le è rimasto di suo fratello?
«Un libro di poesie: lui era una persona creativa. E resta anche la pianta di alloro nel mio giardino. Quella vigilia di Natale gli avevo chiesto di potarla, lavorava come giardiniere negli ultimi mesi: l’aveva tagliata quasi tutta, pareva distrutta. Ora quell’alloro è forte e rigoglioso».