La Stampa, 28 dicembre 2020
Jane Birkin, la riscoperta dei giochi proibiti
Je t’aime… moi non plus scandalizzò il mondo, almeno quello benpensante, e divenne la colonna sonora della rivoluzione sessuale della fine degli Anni 60. A cantarla Serge Gainsbourg insieme a Jane Birkin censurati in più Paesi, Italia compresa, per l’erotismo di quelle parole e di quella musica. Adesso, a 12 anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio, il nuovo album della diva, «Oh! Pardon Tu Dormais…», che intercetta ciò che resta delle passioni, la malinconia estetizzante dell’arte, i giochi delle figlie bambine nel giardino della casa in Normandia e le ferite impossibili da rimarginare.
Con canzoni d’amore perduto, storie e stagioni sfumate nel tempo, il disco, che include i singoli «Le Jeux Interdit» e «Ta Sentinelle», è il più intimo della cantante e attrice dall’inizio della sua carriera, pervaso da echi cinematografici e cenni di autobiografia. E’ un viaggio nella dimensione reale e sublimata della memoria tra istantanee di famiglia, melodie senza tempo e pagine di diario. «Abbiamo iniziato a registrare l’album lo scorso anno e ora non posso essere più felice. Ho ricevuto responsi positivi e ne sono grata: chi mi ascolta dice di essere toccato da ciò che scrivo» racconta Birkin.
Cosa l’ha spinta a rileggere una storia che aveva messo nero su bianco anni prima?
«Quando lo spettacolo era a teatro, Etienne Daho (co-produttore del disco insieme a Jean-Louis Piérot) veniva a trovarmi spesso e cercava di convincermi a farne una trasposizione musicale. E’ stato così per anni ma non era mai il momento adatto, ero impegnata in sul palco o su un set o lui era in studio di registrazione. Poi sette anni fa mia figlia Kate se ne è andata e tutto è cambiato, ho deciso che quello era il momento di iniziare così ho registrato i primi brani senza accompagnamento musicale. Ho smesso e ricominciato. Nell’album ci sono canzoni per mia figlia Kate, perderla è stata la più grande tragedia della mia vita. Non era possibile tornare indietro a qualcosa che ho fatto vent’anni o trent’anni prima e non parlare di lei. Ho scritto le prime canzoni per Kate e poi mi è stato possibile rileggere il resto, il passato, le passioni, gelosie. Temi adatti a canzoni e altri fantasmi».
E lei si sente cambiata in questi anni?
«Non credo di essere cambiata molto. Ci sono sempre io e ci sono i miei quaderni, i miei Munkey Diaries (raccolti nell’eponimo volume edito in Italia da Edizioni Clichy, ndr). Metto passione in ciò che faccio e porto con me un po’ di dolore come allora. Ricordo quando ero sposata con John Barry mi svegliavo nel cuore della notte e gli chiedevo in lacrime se mi amasse. Ora non ho più queste preoccupazioni ma torno indietro con la memoria e rivivo la stessa malinconia».
Si ricorda quando ha iniziato ad annotare la sua vita in un diario?
«Ho avuto un diario credo da quando avevo dodici anni, era comune in Inghilterra, nel periodo della scuola, mettere nero su bianco i propri pensieri soprattutto se si viveva lontani, raccontarsi era un modo per passare la notte quando non si riusciva a dormire. Ho continuato negli anni. Cercavo di scrivere ogni giorno e non di dischi, spettacoli teatrali o film ma della mia quotidianità e della mia vita interiore».
La canzone "Le Jeux Interdit" è ispirata a un ricordo di famiglia…
«Guardavo spesso il film Jeux Interdits di René Clément insieme alle mie figlie. Loro lo amavano. Evocando una scena, da bambine, hanno seppellito qualsiasi cosa in giardino in un gioco che imitava un rito solenne, persino la cena o l’arrosto della domenica. Giocavano nella casa in Normandia dove vivevamo, o poco più lontano, nel cimitero accanto e lì mettevano scompiglio e scambiavano e persino le targhe delle tombe per assecondare il desiderio di giustizia e uguaglianza sociale. I guardiani del cimitero erano infuriati…Questi sono i giochi d’infanzia che hanno ispirato la canzone».
A proposito di rito, la performance, la messinscena possono essere un’imitazione della realtà secondo lei?
«Di recente ho letto un libro sul risentimento e ho pensato che l’unico modo per uscirne, per liberarsene è farne qualcosa, trasformarlo in altro. Se sei abbastanza fortunato da essere uno scrittore o un pittore puoi sublimarlo in un’opera d’arte. Puoi accettare così il dolore, metabolizzarlo e in qualche modo superarlo. Forse scriviamo canzoni belle e dense di significato quando all’origine di tutto c’è una dose di sofferenza».
E’ successo anche lei?
«Sì. Quando ho lasciato Serge Gainsbourg, lui ha scritto testi come "Baby Alone in Babylone" sullo sgretolarsi della nostra storia. Per me cantarle è stato un onore ma anche un impegno tutt’altro che semplice, quei testi rendevano ancora più profonde le ferite che io gli avevo procurato. Nonostante questo io avevo un posto nel suo cuore e lui nel mio. I sentimenti, i momenti di dolore, le relazioni finite…puoi trasformare tutto in materia prima per la creatività quasi le voci delle persone che hai amato fossero fantasmi. E’ un potere straordinario».
Ha parlato di fantasmi, quali sono i suoi e come ha fatto a combatterli?
«Ne ho scritto in Ghosts, una traccia del disco. E’ una canzone che parla dell’evocare le persone care e del desiderio di non essere sola e volere che ti prendano e ti portino via. Nel testo il riferimento è anche alle tavole illustrate da Gustave Doré per Paradise Lost di John Milton, la raffigurazione maestosa della caduta degli angeli. Sono inglese e tutto ciò che è gotico esercita un grande fascino su di me».
Come ricorda la sua infanzia?
«Credo che sia un tema che ricorre nel mio lavoro, un desiderio di ritorno verso qualcosa che non puoi più vedere, una terra dell’immaginazione bellissima perché non puoi più accedervi. E’ anche uno spazio libero. Ho una grande malinconia per quella stagione ma forse non è solo un sentimento negativo piuttosto un’energia creativa che ha avuto un impatto nel disco».
«L’amore passionale fugace o quello imperituro per le arti sono temi cardine dell’album…
«Tutto l’amore passionale e romantico che è racchiuso è un amore passato. La maggior parte delle canzoni è sull’amore disatteso non per colpa dell’altra persona ma perché si chiede troppo al sentimento. C’è spesso la tendenza a vederlo come totalizzante, assoluto. Il vero amore, invece, è desiderare che l’altro sia indipendente».
Un’ultima domanda: il disco è pervaso da inni al potere della narrazione. Quanto è importante raccontare storie in tempi bui?
«Molto, soprattutto oggi le storie hanno un immenso potere. Lo sappiamo fin da quando, da bambini, proviamo emozioni diverse ascoltando le fiabe di Hans Christian Andersen o di Oscar Wilde, tenere ma anche capaci di far piangere. Io amo leggere a voce alta e che qualcuno legga con me. Ho tanti ricordi: mia madre, Olivier Rolin che mi leggeva François-René de Chateaubriand e Serge Gainsbourg intento a sfogliare le pagine di "Madame Bovary" di Flaubert».