la Repubblica, 28 dicembre 2020
La dieta di Pompei
Una volta tutte le strade portavano a Roma. Ma tutte le strade di Roma portavano a un termopolio, dove i Quiriti trovavano nutrimento e godimento. Saziavano la fame e coltivavano i loro peccati di gola. Numerosissimi. Visto che i figli della Lupa erano insieme dei gourmet e dei mangioni. Volevano quantità e qualità. E quando potevano permetterselo, anche bocconi prelibati come carni, pesci e frutti di mare.
I manicaretti più luculliani erano riservati ai banchetti e soprattutto alla sera, quando si consumava la cena con amici, musica e abbondanti libagioni, stravaccati mollemente su comodi triclini. Di giorno però bisognava mangiare alla svelta, al banco, spesso per strada. Insomma, si viveva di snack anche allora e il termopolio era il paradiso della ghiottoneria just in time. Un po’ tavola calda, come suggerisce la parola che deriva da termos (bollente) e da poleo (vendo). Ma anche street food, visto che il cibo si consumava al volo. I termopolia, infatti, non avevano né sedie né tavoli, né spazi per sedersi all’interno.
Nella sola Pompei ce n’erano centinaia. Il più rinomato era quello di Asellina, una vera imprenditrice del fast food, a metà fra Messalina e la Sora Lella. Il locale si trovava lungo la via dell’Abbondanza, la Fifth Avenue vesuviana. E per far sentire a casa gli stranieri Asellina aveva scelto cameriere madrelingua. L’ebrea Maria, la turca Smyrina e la greca Egle che servivano con grazia efficiente olive, focacce schiacciate e brocche di vino. I più amati erano il Falerno, il Cecubo e l’Aglianico, ma i più choosy amavano quello di Samo. La specialità del locale era la posca, una bevanda energetica e dissetante a base di acqua, uova e aceto. Un Red bull di allora.
Chi voleva prendersela comoda andava invece alle caupone, simili alle nostre trattorie, spesso dotate di giardino e pergolati frondosi, dove si gustavano verdure di stagione, frutta, formaggi, pane e perfino mozzarelle fresche o alla brace. Il servizio era un plus, perché le cameriere erano sempre delle vere bellezze e spesso esotiche. Nella celebre caupona di Salvio gli appetiti degli avventori venivano stuzzicati fin dall’ingresso da immagini erotiche come un uomo e una donna che si baciano e da ritratti di giocatori di dadi.
In ogni caso l’offerta alimentare era sterminata, perché i discendenti di Romolo a tavola non si facevano mancare niente. Ma erano soprattutto grandi consumatori di zuppe a base di cereali e legumi, insaporite da spezie e aromi come il mirto e spesso rinforzate da olio e grassi animali e insaporite dal garum, la celebre salsa di pesce. Quello prodotto nelle officine gastronomiche di Pompei era così famoso e pregiato che il poeta Marziale, pur lamentandone il costo proibitivo, lo considerava ineguagliabile.
Un’altra mania collettiva erano le fave, che i cives mangiavano in polenta, la celebre puls fabata. Ma anche in forma di chips, grigliate con tutta la buccia. Erano considerate un cibo divino, tant’è che nei riti stagionali venivano offerte a Tacita Muta, la dea della semina e del raccolto. In realtà i primi “polentoni” della storia non sono stati i padani ma i romani. Ad affibbiargli questo soprannome furono i greci che non apprezzavano quelle che a loro giudizio erano delle pappette per sdentati.
E furono proprio ateniesi e macedoni a portare nella caput mundi l’arte della lievitazione del pane. Che diventò presto un culto. Nei trentacinque panifici pompeiani si vendevano circa ottanta varietà e pezzature diverse. Dall’integrale, spesso misto a farina di legumi, riservato a poveri e schiavi. Fino al panis clibanarius, bianchissimo, finissimo, buonissimo e riservato ai ricchi. Insomma, i prodotti da forno erano un business colossale. Il più famoso panettiere pompeiano, Giulio Polybio, era così ricco da passare alla storia come il primo antiquario di sempre, visto che investiva i suoi lauti profitti in antichità egiziane. Ma i romani, soprattutto quelli benestanti erano divoratori compulsivi di pesce e frutti di mare. Vongole, patelle, lupini, ostriche, datteri venivano serviti sia cotti che crudi come antipasti nei grandi banchetti, prima delle orate, dei dentici e delle murene. Questa passione andò talmente fuori controllo che nel 115 avanti Cristo venne emanata una legge, la Lex Aemilia, che ne proibiva il consumo. E nacque subito il mercato nero.
Peraltro, i Quiriti erano altrettanto sensibili ai piaceri della carne. Spendevano patrimoni in pernici laccate, lepri salsate, salsicce grigliate e specialità esagerate, come il porcus troianus, servito nella famosa cena di Trimalcione raccontata da Petronio nel Satyricon. Un maiale ripieno come il cavallo di Troia. Ma stipato di quaglie, tordi, beccafichi, uova e chi più ne ha più ne metta. E a tanto ben di Dio i romani facevano seguire una ultimativa bordata di dessert. Alcuni sofisticatissimi come i datteri farciti di noci, pinoli e pepe, salati all’esterno e “fritti” nel miele cotto. Altri semplici come la liba, una focaccia dolce, elementare ma amatissima. In realtà, la recentissima scoperta del magnifico termopolio del Regio V ci parla di noi. Perché rivela che i nostri gusti discendono da quelli dei romani. Di fatto Pompei ci restituisce l’archeologia della dieta mediterranea.