La Lettura, 27 dicembre 2020
L’uomo che diceva: «Sono stato rapito»
«Mi chiamo Antonello Tuvoni, e sono il bambino rapito».
Possiamo farla cominciare da qui la storia che in tanti hanno provato a ricostruire, da questa affermazione-dichiarazione d’identità, a un certo punto rivendicazione. «Mi chiamo Antonello Tuvoni, e sono il bambino rapito». A parlare è un uomo di quasi quarant’anni, un senzatetto che gira per Cagliari con un carrello della spesa e una cagnolina di nome Silvia («in ricordo della mia ex», dice, sebbene qualcuno sostenga che non esista alcuna ex).
Figlio di Mario Tuvoni, operaio, e di Stefania Lai, casalinga, Antonello ha tre anni e otto mesi quando sparisce da Torpè (Nuoro) il 28 agosto 1974.
Il tempo che la madre entri in casa per lavargli un grappolo d’uva, e il bambino si è dissolto.
Lo cercano poliziotti, squadre speciali. Troppo piccolo per allontanarsi da solo, chi può averlo preso? Chi rapisce il figlio di gente semplice senza nessuna possibilità di pagare un riscatto? A casa Tuvoni il telefono non squilla. Da quel giorno tutto tace.
Ne parlano i giornali, e se quelli nazionali si disinteressano presto, quelli locali insistono, il bambino deve essere ritrovato. «È così piccolo – dice la madre – più piccolo dei suoi tre anni e mezzo» (l’effetto che fanno le persone scomparse: rimpicciolire nella mente dei loro cari).
Nel 1988 la madre muore di tumore, e di dolore – sostengono in paese – mai rassegnata alla scomparsa del figlio. «Per la sofferenza aveva perso tutti i denti», racconta Maria Rosa, zia di Antonello, che si ripromette di non smettere di cercare il nipote, lo deve alla sorella, si tratta di una promessa sul letto di morte. E qui si conclude il primo tempo della storia, con una famiglia spaccata.
Immaginiamo che cosa significhi per il padre e i fratelli crescere/invecchiare con l’assenza di un figlio e di un fratello che, nella memoria, rimane bambino per sempre. Nessun giocattolo a ricordarlo, poiché di giocattoli in quella casa non ne ce ne sono mai stati, non c’erano soldi. Un regalo che avrebbe voluto per Natale? – chiederà qualcuno più avanti ad Antonello adulto. E lui: «Se devo pensare a un regalo, dico il camion dei pompieri».
Questo tuttavia accadrà in seguito, per adesso rimaniamo agli anni immediatamente successivi alla sparizione – cinque, dieci, quattordici anni dopo.
Leggendo sul giornale di un ragazzo senza nome dall’età apparente di sedici-diciassette anni, un ragazzo trovato per strada e attualmente ospitato presso l’istituto dei Padri Somaschi di Elmas (Cagliari), un ragazzo che non dice niente di sé e di cui si cercano informazioni, magari i familiari, Mario Tuvoni – il papà – si precipita a Elmas. Si precipita e riconosce il figlio. Dal canto suo il ragazzo conferma: sono io.
Racconta di essere stato rapito dagli zingari che gli hanno cambiato nome, lo chiamavano Zoran, lui però non si sentiva Zoran – dice – lui dentro è stato sempre Antonello.
Commozione, incredulità di alcuni subito tacitata da prove tangibili («Gli dissi di spogliarsi – riferisce la zia – e di togliersi le scarpe. Allora notai una malformazione alle dita di un piede uguale a quella di un’altra figlia di mia sorella. Aveva due dita sovrapposte in modo innaturale ed è per questo motivo che ho pensato che fosse proprio Antonello, il mio nipotino scomparso», confessa la donna a Paolo Carta dell’Unione Sarda, colui che da questo momento seguirà la vicenda fino alla fine).
Il mignolo storto è sufficiente a papà Mario per rifiutare le analisi del sangue necessarie a stabilire la compatibilità genetica.
Un padre riconosce il figlio senza bisogno di analisi.
È così – nella forma della favola o del miracolo – che la famiglia si ricompone, e Antonello torna a vivere con i suoi, accolto dal paese in festa.
Purtroppo però quel ragazzo tornato non ha niente del bambino buono, piccolo, piccolissimo, che la gente ricorda. «Ubriaco già dalla mattina» – diranno di lui in paese – «non lavorava». «Sai le galline che sono sparite in quel periodo? Galline, polli».
Trascorre un anno di conflitti. Antonello che passa la notte fuori casa, Mario che non riesce a dormire – che sia sparito di nuovo? L’uomo rivive all’infinito la sparizione del figlio.
Trascorre un anno di proteste: ha rubato, ha urlato, ha picchiato. Violento, ingrato. Non si lava – si aggiunge anche questo: abituato alla vita di strada, Antonello non ci sta a rispettare le regole, neppure quelle igieniche, fa tutto dove capita, all’aperto.
Trascorre un anno con quel figlio resuscitato, alla fine Mario dice basta. E non si limita a cacciarlo di casa intimandogli di non farsi vedere più, no. Pubblicamente, a stampa e tv locali, il padre dice: mi sono sbagliato, non era lui (ancora sulla base di sensazioni, nessun accertamento scientifico, stavolta rifiutato per paura che possa risultare davvero suo figlio). Tanto un anno prima era convinto che quello fosse Antonello, quanto ora è certo che non lo sia: suo figlio non si sarebbe comportato così, non era aggressivo, ribelle, non era un ladro, suo figlio.
«Sparì con l’oro di famiglia – racconterà il fratello – e adesso ci vuole rubare nostro fratello scomparso». Perché negli anni successivi quell’individuo entra e esce dal carcere come Antonello Tuvoni, continuando ad affermare di essere lui, proprio lui, il bambino rapito.
Eccolo Antonello-Zoran in via Satta, di fronte al supermercato. Carrello vuoto, la cagnolina Silvia.
A quel senzatetto gentile – «aiuta gli anziani a portare la spesa» – si affezionano in molti. Chi gli dà da mangiare, chi gli regala vestiti oppure coperte. «Di età fisica aveva intorno ai trentotto-quarant’anni, di età mentale dieci», ricorda Isa Marcialis, parrucchiera. Isa che lo aiuta. Isa che lo invita a pranzo per le feste, come dimenticare il primo Natale insieme? «Appena vide l’orsacchiotto di mia figlia, si fece triste», racconta la donna. Motivo: anche lui voleva in regalo giocattoli, e non oggetti da adulto. «Se devo pensare a un regalo, dico il camion dei pompieri» risponde a Isa che gli chiede che cosa desideri di preciso per quel Natale e anche per dopo.
Da allora Antonello riceve giocattoli, quelli che non ha mai avuto.
E si emoziona, scoppia a piangere, ogni Natale (che qualcuno venga a dire che non è una restituzione d’infanzia, questa).
Gli anni passano, Antonello vive per strada, di elemosina e piccoli furti. Sono i giornalisti dell’Unione Sarda a trovargli una casa, a fare una colletta per il test del Dna. Sono sempre i giornalisti a convincere la zia materna e quella paterna a sottoporsi al test – falliscono invece con il padre che si ostina a non volerne sapere niente del tizio che si spaccia per suo figlio.
Questa vicenda sta per concludersi sotto lo sguardo dell’Italia intera, perché nel frattempo Antonello è diventato un caso nazionale a cui s’interessa persino Chi l’ha visto?. Un personaggio che molti vogliono intervistare, e lui – ancora, sempre, fuori dal supermercato – lui dice: «Sono diventato famoso». Il bambino che ritorna, l’uomo privo di rabbia nonostante la vita difficile, la persona che ripete il suo nome, unica ricchezza: Antonello Tuvoni, Antonello Tuvoni.
Così arriva finalmente il giorno della verità. Quel giorno Antonello ride, piange. Dice: «Aspettavo tanto questo momento».
Folla, telecamere.
A un passo da sé stesso, dall’uomo che si sovrappone al bambino.
Applausi.
Immaginiamo gli applausi della gente.
Immaginiamo. E sbagliamo.
«Dall’esame genetico emerge che non esiste nessun vincolo di parentela con la famiglia per via materna e con la famiglia Tuvoni per via paterna» – è la risposta del test. Comunicata a un Antonello incredulo, poi smarrito, un uomo che si guarda attorno quasi avesse perso il senso dell’orientamento – se ora arrivasse il camion dei pompieri.
È il 2 marzo 2007 quando quell’uomo finisce di essere Antonello Tuvoni.
Dopo una vita a credere di esserlo, a convincersi, arrivando a creare dei ricordi – non in malafede, davvero lui si era aggrappato a quel bambino, sostengono le persone che lo conoscono, supponendo anche un danno cerebrale dovuto ai maltrattamenti subiti da piccolo.
Prima di morire, a seguito di un’aggressione da parte di una baby gang (una resa dei conti dell’infanzia? Bambini che picchiano l’abusivo – a voler caricare di significati, a voler riportare tutto lì, ai sei anni di Antonello o chi per lui).
Prima di essere picchiato e gettato da una scalinata, prima di essere portato in ospedale dove si lascia morire il 24 dicembre 2014, sei anni fa trascorsi adesso, Zoran-Antonello è già morto.
Il giorno che ha scoperto di non essere Antonello Tuvoni, quella è stata la sua morte.
E insieme a lui, attorno a lui, ogni cosa ha perso identità.
Così succede che poco tempo dopo il Dna, poco tempo dopo la scoperta, Zoran-Antonello sia a casa con la cagnolina Silvia che inizia ad abbaiare, e lui, depresso, forse ubriaco, la prenda e la butti dalla finestra. Prima del pestaggio, prima di lasciarsi andare, prima della sua di morte, c’è quella di Silvia. Perché se lui non è Antonello, anche Silvia non è Silvia, tranne poi ripensarci, correre giù per le scale, per strada, piangere la cagnolina di nome Silvia come l’amore passato (sicuri che sia esistito un amore, l’amore?), piangere Silvia, sé stesso, il mondo perduto, vero e reale, che importa.
Mi chiamo Antonello Tuvoni, sono il bambino rapito.
È a questo punto che sul luogo, chiamati dai vicini, sopraggiungono i pompieri, anticipando carabinieri, ambulanza, polizia; prima di tutti arriva il camion dei pompieri.