La Lettura, 27 dicembre 2020
La Galleria Borghese compra il Reni perduto
Ritrovare sul mercato antiquario un quadro appartenuto al cardinale Scipione Borghese (1577-1633), il più importante (e spregiudicato) collezionista del Seicento, è una missione quasi impossibile. Per tanti motivi. Il primo è che la gran parte della sua collezione, conservata nei secoli, è quella – pubblica e inamovibile – che oggi si ammira nelle sale della «sua» Galleria Borghese, una delle tante residenze che il ricchissimo e capriccioso Cardinal Nepote, figlio adottivo di Papa Paolo V, fece erigere nei primi anni del Seicento riempiendola di meraviglie, dai Caravaggio ai Bernini.
Il secondo motivo è che se mai un quadro appartenuto a Scipione finisse sul mercato (e in passato gli eredi Borghese ne hanno vendute, di cose, tra cui ben 8 Raffaello tra i più importanti), per accaparrarselo bisognerebbe vincere una spietata concorrenza, specie quella dei musei stranieri, americani e non solo. Terzo e non ultimo: se a comprare fosse lo Stato italiano, questa concorrenza andrebbe battuta anche sui tempi, cosa non facile per chi deve rispettare stringenti norme di legge, burocrazia eccetera.
Eppure tutte queste condizioni si sono verificate in quella che la direttrice della Galleria Borghese, Francesca Cappelletti, definisce oggi una coincidenza «davvero straordinaria, felice e fortunata». Il museo romano ha infatti appena comprato, per circa 800 mila euro, un’opera di Guido Reni (1575-1642), un rarissimo paesaggio di uno degli artisti prediletti dal cardinale Scipione che alla mano del Divino— soprannome con cui Reni, erede di Raffaello, diverrà noto nel corso dei secoli – commissionò anche il celebre affresco dell’Aurora(1614), che decorava, e ancora decora, il Casino della sua residenza privata sul colle Quirinale, palazzo oggi di proprietà Pallavicini Rospigliosi.
Il quadro, appena entrato nelle collezioni del ministero per i Beni culturali, è un olio su tela di 81 centimetri per 99, raffigura una Danza campestre e fu dipinto quasi certamente agli inizi del nuovo secolo, 1601-02, epoca del primo viaggio di Guido dalla natia Bologna a Roma. Per una curiosa coincidenza, proprio quello da Bologna a Roma è stato l’ultimo tragitto compiuto dall’opera, «rientrata» da pochi giorni nella sua dimora originaria, la Galleria Borghese, dove era giunta quattro secoli fa e dove mancava dal 1892.
In quell’anno infatti, e ancora nel successivo, la famiglia Borghese aveva messo all’asta alcuni beni per fare cassa, poco prima della vendita allo Stato italiano della Villa e della Galleria con la collezione di capolavori avviata proprio dal cardinale Scipione. Venne alienato di tutto: la biblioteca di Paolo V (ma manoscritti e archivio passarono fortunatamente alla Vaticana, dove si trovano tuttora) e perfino piatti, posaterie e mobili, tra cui 7 poltrone dipinte che la leggendaria milionaria americana Isabella Stewart Gardner comprò per la sua casa di Boston, oggi museo, tramite il pittore Ralph W. Curtis.
Ma soprattutto espatriarono opere clamorose, tra cui due busti di Bernini che ritraevano il papa di famiglia: la prima versione, quella che il pontefice tenne nella stanza da letto fino alla morte, oggi al Getty Museum di Malibu; e una successiva, in bronzo, poi finita allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen. Prese la via dell’estero, probabilmente l’Inghilterra, anche il quadro di Guido, derubricato nel catalogo della vendita condotta dai mercanti Vincenzo Capobianchi e Giuseppe Giacomini a opera anonima di scuola fiamminga, con titolo in francese: La châtelaine («La castellana»).
Dimenticato per secoli, il quadro rispunta a Londra in un’asta del 2008, riferito ora a un anonimo artista bolognese. Ma l’altissima qualità del dipinto desta l’attenzione del successivo proprietario, il gallerista londinese Patrick Matthiesen. E dopo una ridda di ipotesi attributive (Sisto Badalocchio, Domenichino, Guercino giovane, Mastelletta, Agostino Carracci...) arriva la restituzione certa alla mano di Reni, per quella che la scheda ufficiale che accompagna la tela definisce oggi «una delle più importanti e inattese scoperte degli ultimi anni».
A cambiare le carte in tavola giunge infatti la documentata provenienza dalla collezione di Scipione Borghese, grazie al contributo di studiosi di mezzo mondo. Prima Keith Christiansen (Columbia University, Metropolitan Museum di New York) nota le assonanze con un piccolo rame di Reni, un Riposo dalla fuga in Egitto in collezione privata, proveniente sempre dalla collezione Borghese. Poi la svolta grazie a successive ricerche: di Aidan Weston-Lewis, che identifica il quadro con la Danza di cui si ha menzione nell’inventario Borghese del 1693; e di Elena Fumagalli, che ritrova il dipinto citato da Jacomo Manilli nella sua guida, Villa Borghese, del 1650. Il quadro compare anche in un registro delle opere del cardinale, il più antico, redatto tra gli anni Venti e Trenta del Seicento. E, dettaglio più dettaglio meno, nelle carte tutto coincide: misure, soggetto, nome dell’autore: «Un Ballo di villa di Guido Reni», un «quadro in tela con un Paese con molte figure figurine con un ballo in Campagna alto p.mi 3 e mezzo Cornice dorata».
L’opera riscoperta viene così messa in vendita, inizialmente alla cifra di un milione e mezzo. Si trova all’estero, dunque non vincolabile dallo Stato italiano che, se vuole riportarla alla casa-madre, deve acquistarla sul libero mercato con una (non facile) trattativa, economica e «diplomatica». A condurla è l’ex direttrice del museo Borghese, Anna Coliva, che dopo una serie di contatti con il mercante di Londra ritrova la tela in vendita all’ultima fiera antiquaria di Maastricht, nel marzo scorso, durante la preview riservata agli addetti ai lavori.
L’opera è esposta nello stand della galleria Fondantico di Bologna, nel frattempo entrata in società con Matthiesen per la cessione della tela. La trattativa, dopo un primo ribasso a un milione, complice forse il primo dilagare del Covid e una Maastricht non piena come al solito di ricchi compratori, si chiude per la cifra di 800 mila euro. Un contratto che la nuova direttrice Cappelletti, subentrata a ottobre a Coliva, ratificherà.
Il resto è cronaca di oggi, con questo Guido ritrovato che – se la datazione del quadro verrà confermata – oltre a rivelare una consuetudine di Reni con un genere in precedenza a lui pressoché sconosciuto, ridisegna la storia della pittura di paesaggio del Seicento. Comunque sia, la Danza segna una delle prime tappe di una storia importante, quella della committenza Borghese nei confronti di un pittore amatissimo, sia pure tra screzi e ripicche. Una committenza fatta soprattutto di affreschi in sedi di prestigio (Vaticano, San Gregorio al Celio in gara con il Domenichino, Quirinale, Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, di proprietà Borghese, la citata Aurora), ma anche, dunque, di quadri.
La Borghese possedeva finora una sola opera, tarda, di Reni. Almeno un’altra tela, la Santa Cecilia, ora nel museo di Pasadena, Scipione la comprò dal cardinale Sfrondati, primo committente romano di Reni. I Borghese però la rivendettero due secoli dopo a Luciano Bonaparte. Ora si aggiunge questa fascinosa scena campestre , con nobildonne e villici insolitamente ritratti insieme al suono di viola e liuto, e una straordinaria raffigurazione di natura sullo sfondo: specchi d’acqua, velature, luce crepuscolare (i celebri blu di Reni) e due curiose mosche dipinte in trompe-l’oeil posate sulla tela. Un lavoro che già racchiude quella grazia e quella musicalità per cui Reni diverrà celebre, ricco, idolatrato; un artista tanto apparentemente apollineo nello stile quanto, in realtà, sensuale e non privo di ambiguità, aedo della propaganda fide in netto contrasto con un’esistenza, la sua, tormentata (anche) dai debiti di gioco.
«Ora il museo è chiuso – anticipa Cappelletti – ma il quadro, che sarà oggetto di studi, verrà esposto non appena possibile. Faremo anche una presentazione ufficiale dell’acquisto e, presumibilmente a ottobre, una mostra, affiancandogli altre opere di Reni e paesaggi di autori a lui contemporanei».