Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 27 Domenica calendario

12QQAFA10 L’importanza di “Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson

12QQAFA10

Triste è il destino degli anelli mancanti. Di coloro che si trovano nell’interregno tra mondi diversi e inconciliabili: sospesi tra prima e dopo, non sono più né sono ancora; intuiscono ma non vedono; alterano, modificano, stando ben attenti a non stravolgere. Temo che questo sia la sorte di Winesburg, Ohio, il libro che al suo apparire, nell’autunno del 1919, fece davvero un gran chiasso proiettando l’allora quarantatreenne Sherwood Anderson tra i grandi della narrativa americana.
Il problema – ma anche la fortuna – degli anelli mancanti è che di rado sanno di esserlo: toccherà ai posteri, infatti, definirli tali. Se gli anelli mancanti avessero coscienza della propria natura esitante, del carattere insieme vetusto e profetico dell’ispirazioni che li anima, forse ne verrebbero sopraffatti. Questo ci consola un po’. Probabilmente, scrivendo il suo celebre libro, Anderson non era consapevole che un giorno sarebbe apparso a molti di noi come il classico epigono bagnato dal genio dei precursori.

Bene ha fatto John Updike a ricordarci come, per allestire la sua galleria di ritratti, Anderson non sia andato troppo lontano, prestando orecchio a ciò che gli era più prossimo e contiguo, sia nel tempo che nello spazio: l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e Tre esistenze di Gertrude Stein. È da quei due testi insoliti che Anderson ha ricavato l’idea di dare voce a una pidocchiosa, remota comunità del Midwest composta da nemmeno duemila anime, condensando il destino di una manciata di suoi abitanti in dense prelibate paginette. Da quei due funerei capolavori Anderson ha tratto sia l’implacabile unità spaziale (una geografia tanto circoscritta quanto angusta), sia quel tono rapsodico e visionario. Se mi passate l’espressione, vorrei dire che Anderson ha il merito di aver inaugurato una sorta di epica da camera, una mitologia provinciale.
Non va dimenticato che negli anni in cui attende al suo capolavoro imperversa il modernismo. È il decennio fecondo, inarrivabile di Joyce, Proust, Kafka. Mai più in seguito il genere romanzo darà prova della stessa fiducia in sé stesso e di una così flessibile spregiudicatezza, a costo di esporsi ai rischi dell’oscurità e della magniloquenza. Ebbene, poco di tutto questo – se non forse l’episodico ricorso alla tecnica delle epifanie – risuona nelle pagine di Anderson. La fonte da cui sgorga la sua ispirazione è la letteratura nordamericana del XIX secolo: come se per lui non esistesse altro. In essa Anderson trova modelli e interlocutori affidabili. Pensiamo a certi quadretti rupestri, talvolta addirittura edenici: sembrano fare il verso al migliore Twain. Qua e là, sebbene in tono minore, avvertiamo l’eco del panismo dionisiaco di Whitman e del cupo titanismo di Melville. Ma soprattutto, considerando la pruderie erotica che affligge quasi ogni cittadino perbene di Winesburg, percepiamo il debito morale nei confronti di Hawthorne. Inoltre, nel modo peculiare con cui Anderson maneggia il Tempo – come se ogni attimo di vita fosse minacciato dall’orrore dell’eternità – avvertiamo un omaggio a Emily Dickinson e al suo piccolo mondo antico.
«Nondimeno», nota ancora Updike, «l’ingenua foga con cui Anderson insegue il mistero delle misere vite di Winesburg ha aperto il Michigan di Hemingway e il Mississippi di Faulkner; ha indicato la via per dare nuovo credito letterario ai luoghi di origine, mostrando una fresca passione per le loro elusive emanazioni». Updike al solito non sbaglia. Sono parecchi gli scrittori americani del secondo Novecento che hanno seguito le orme e l’esempio di Anderson. A cominciare dallo stesso Updike. Ma senza scomodare nomi altisonanti (Bellow, Cheever, Carver, Bukowski), si pensi a Kent Haruf, un narratore discreto, marginale, di frontiera, che negli ultimi tempi si è guadagnato in Italia una più che meritata ribalta. Dubito che senza Anderson, Haruf avrebbe potuto concepire i suoi libri nel modo in cui li ha concepiti. Holt, la piccola contea immaginaria nel cuore del Colorado, in cui Haruf ambienta ogni storia, sembra costruita (persino nell’impalcatura urbanistica) sul virtuoso modello competitivo offerto da Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson. Fa specie che, a dispetto di spazi così smisurati, molti narratori americani abbiano sentito l’esigenza di dedicare cure esclusive e spasmodiche a località piccole, trascurabili, fuori mano. A pensarci bene, non è mica facile trovare un romanziere statunitense che non abbia pagato dazio a un’indole domestica, se non addirittura pantofolaia.

Guai se la storia della letteratura prende il sopravvento sulla letteratura. È un ammonimento che rivolgo anzitutto a me stesso. Non nego che interrogarsi sugli scrittori che hanno influenzato Sherwood Anderson possa offrire spunti suggestivi e preziosi, così come enumerare la schiera di narratori per cui ha costituito un esempio imprescindibile. Sono consapevole che restituire il posto dovuto a un tale narratore, inserirlo en passant in una genealogia plausibile, è esercizio virtuoso e un buon modo di fare ordine. E tuttavia nessuno mi toglie dalla testa che tali tassonomie, per quanto accurate, poco ci dicano di Anderson e del suo libro più famoso. È lui stesso a ricordarci che il genio poetico è una faccenda singolarmente privata, per statuto intima e irripetibile.
E allora mi sia consentito dire che il paesotto di Winesburg è una vera Spoon River in virtù dei suoi pochi abitanti. C’è in loro qualcosa di funebre e fantasmatico. Persino il più estroverso e vitale, ci appare sotto forma di spettro in balia d’una maledizione. Una chiave di lettura preziosa si può ricavare dal capitolo intitolato Solitudine: in esso Anderson rivendica il carattere solispistico della vocazione artistica. Il protagonista, il mite ineffabile Enoch Robinson, è perseguitato da una folla di individui immaginari che danno senso a una vita che più desolata non potrebbe essere. Ah se solo riuscisse a ritrarli, se solo sapesse dipingerli! Purtroppo ne è incapace. «Aveva in mente di andare a Parigi a terminare la propria istruzione fra i maestri di laggiù, ma questo non avvenne. Non avvenne niente a Enoch Robinson». Ciò riguarda lui, certo, ma anche ogni suo altro concittadino, anche il meno acculturato. Anderson, ben lungi dal soffermarsi sulle gesta dei suoi eroi, ama dare conto dei loro dinieghi, delle fughe e dei silenzi. In effetti, essi parlano poco. In compenso, gesticolano parecchio. Guarda caso un intero capitolo (tra i più intensi) è dedicato a un paio di mani, quelle del vecchio Wing Biddlebaum. «Parlava molto con le mani. Le dita sottili e espressive, sempre in movimento, sempre occupate a tentare di nascondersi nelle tasche o dietro la schiena, saltavano fuori e diventavano gli stantuffi della sua macchina espressiva». Solo in coda al racconto scopriamo che si tratta delle stesse mani che per poco non lo hanno condotto alla forca. Le mani con cui era solito carezzare i suoi ragazzi quando faceva il maestro. Sebbene privi di malizia, quei gesti affettuosi gli hanno procurato una pessima reputazione, decidendo della sua vita nel modo più crudele e ingiusto. Ora gli restano solo loro, le mani, allo stesso tempo espressive, ambigue e scalognate. A guardar bene, Anderson, come certi pittori manieristi, rivela un autentico piacere nel ritrarre mani. Quelle di Tom Willy, ad esempio, recano segni singolari e indelebili: «Quella specie di marchi di nascita, che spesso macchiano di rosso volti di uomini e donne, aveva dipinto di rosso le dite e il dorso delle mani di Tom Willy». In fondo non troppo diverse dalle rozze zampe dei Bentley: «Rosse e screpolate». Persino un individuo sporco e ripugnante come Wash Williams intrattiene un rapporto privilegiato con le proprie estremità superiori. «Alle mani ci teneva. Aveva le dita grasse, ma c’era tuttavia qualcosa di gentile e di ben fatto in quella mano che si posava accanto all’apparecchio, nell’ufficio del telegrafo».
Forse a questo punto occorre chiedersi che senso abbia questa specie di feticismo per le mani, e se ci dica qualcosa del mondo di Sherwood Anderson che ancora non sappiamo. Bah, l’idea che me ne son fatto è questa. Le mani sono strumenti essenziali in un mondo rurale dominato da agricoltori, allevatori, maniscalchi. Inoltre, le mani sono portatrici sane di una smania molto specifica: una frenesia che a vario titolo occupa i cuori in subbuglio di tutti gli abitanti di Winesburg; la brama di esplorare, toccare, carezzare nel modo più sfrenato e licenzioso. Il guaio è che quasi mai un desidero così naturale, come sa bene il povero reverendo Hartman, assediato da peccaminosi tarli masturbatori, può trovare sfoghi e soddisfazioni. A impedirlo è il diffuso protestantesimo che, nella migliore tradizione puritana, svolge al meglio la sua funziona castratrice. Non c’è pagina di questo libro che non trasudi di sensualità malata, di un eros negato e conculcato. Il sesso è una delizia che nessuno è davvero disposto a concedersi. D’altronde, sesso a parte, le mani sono uno strumento indispensabile per ogni liturgia religiosa. È noto come i fedeli, nell’atto di pregare, le tengano giunte. D’altro canto, indugiando sulla metafora ieratica, le mani sono lo spazio deputato alle stigmate, e quindi il luogo del martirio per antonomasia. E qui, lasciatemelo dire, sto mettendo letteralmente il dito sulla piaga purulenta.
Non si può accedere al mondo penitente di Winesburg senza tenere nel dovuto conto l’itinerario cristologico intrapreso da ciascun autoctono. È ciò che ricorda il dottor Parcival al giovane George Willard, non a caso alter ego dell’autore, colui a cui un giorno presumibilmente toccherà dedicare un libro a Winesburg e ai suoi mille inconfessabili peccati: «Devi darmi retta. Se succede qualcosa forse sarai in grado di scrivere tu il libro che io forse non scriverò mai. L’idea è semplicissima, tanto semplice che te ne dimentichi se non stai attento. Si tratta di questo: ognuno al mondo è un Cristo e tutti sono crocifissi. Questo è quel che io voglio dire. Non dimenticartene. Qualsiasi cosa accada, non osare dimenticartene». Grazie al cielo, George Willard, o chi per lui, se l’è ricordato eccome.