La Lettura, 27 dicembre 2020
Biografia di Fëdor Dostoevskij
Saccheggiato da politici e opinionisti, citato spesso a sproposito da giornalisti e romanzieri, preso in mano con fatica da studenti annoiati, considerato «ponderoso» da lettori la cui tolleranza non va oltre le duecento pagine, Fëdor Dostoevskij resta uno dei pilastri della nostra cultura. A duecento anni dalla nascita (11 novembre) e centoquaranta dalla morte (9 febbraio) non ha perso un grammo di attualità: di mese in mese si susseguono nuove traduzioni, è appena uscita una nuova edizione del suo massiccio epistolario, per l’anno venturo (in realtà l’anno degli anniversari) sono annunciati convegni e celebrazioni ovunque.
Contemporaneo di Tolstoj e Turgenev, si stacca da tutti per la lucidità, la sottigliezza, l’energia con cui indaga nei nostri vizi, nelle nostre paure, nelle nostre certezze, nelle nostre depravazioni. Prima di Freud, che si laurea proprio nell’anno della morte dello scrittore, affonda le radici nel nostro inconscio e ci mette in causa. Parla di noi, parla a noi. Poco è cambiato in questo secolo e mezzo. Dice di noi cose che sappiamo, che non sappiamo o che non vogliamo sapere. In Raskol’nikov e Rogožin, in Stravogin e Ivan Karamazov c’è una parte di noi, che lo ammettiamo o no. Non solo, parla di cose nostre: di terrorismo, di giustizia, di femminicidio, di pedofilia, dell’orrore delle carceri, del peso delle parole dette senza pensare che qualcuno le può mettere in pratica.
Non perdiamo un’occasione unica per conoscerci meglio: leggiamolo, rileggiamolo.
A chi serve il carcere?
Cominciamo dal romanzo Memorie da una casa di morti del 1861 (un altro anniversario). Nel 1849, a ventott’anni, scrittore già famoso, Dostoevskij viene arrestato, processato, condannato a morte. Perché? Frequenta insieme al fratello un innocuo circolo di intellettuali che si riuniscono per discutere di autocrazia e repressione, di censura e arretratezza. Una spia li denuncia: un covo di possibili rivoluzionari. Pochi mesi prima, nel 1848, l’Europa è stata sconvolta da un’ondata rivoluzionaria. Lo zar Nicola I decide di usare il pugno di ferro, manda tutti al patibolo, poi all’ultimo momento li grazia: non fucilazione ma lavori forzati. Per quattro anni Dostoevskij finisce nella fortezza di Omsk tra criminali comuni, assassini, banditi, a scavare pietre, trasportare massi. Un inferno indicibile. Esce e racconta.
Memorie di una casa di morti è un libro contro la giustizia. Contro la giustizia che si proclama imparziale e imparziale non è (quasi) mai. Che, in combutta con il potere statale, seppellisce in spaventose galere per decenni esseri umani colpevoli talvolta solo di avere contestato strutture oppressive. È un libro contro la prigione e la detenzione comunque e dovunque. La prigione corrompe, devasta, perverte ciò che ancora c’è di integro, esalta ciò che è già depravato, consolida la determinazione al male di migliaia di delinquenti. Ma è anche un romanzo sulla libertà. Per chi l’ha perduta, resta un bene insostituibile, il sogno di ogni ora, lo scopo di ogni gesto, l’obiettivo di ogni pensiero. È soprattutto un libro sulla dignità umana. Bisogna rispettarla e la prigione non lo fa. Un romanzo che andrebbe letto, insieme a L’isola di Sachalin di Anton Cechov, da tutti i responsabili delle carceri italiane (e non solo).
L’invenzione del sottosuolo
Tre anni più tardi (1864) escono Memorie dal sottosuolo. Che cos’è il sottosuolo? È il groviglio delle nostre pulsioni nascoste, che tutti impariamo a tenere sotto controllo, ben sigillate nel nostro inconscio. Guai a lasciarle affiorare, la nostra vita sociale, organizzata, armonica, assennata, ne sarebbe distrutta.
Il protagonista di Dostoevskij invece lo fa. Così esordisce: «Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole». Un uomo divorato da rancori, inquietudini, frustrazioni, insoddisfazioni, aggressività. Riversa tutto sugli altri e crea intorno a sé il vuoto. Un uomo che si guarda dentro e dice: sono fatto così, se gli altri mi accettano, bene, se no amen.
In Memorie del sottosuolo c’è l’angoscia della solitudine, la disperazione di una coscienza contorta che non sa creare rapporti sani con il prossimo. D’ora in poi tutti i personaggi dei suoi principali romanzi avranno un sottosuolo: qualcuno vi penetra per affondare in una desolata palude d’inerzia, qualcuno riesce invece a rigenerarsi, accettando i propri limiti, aprendosi agli altri e in qualche caso alla fede.
La responsabilità dei propri atti
In Delitto e castigo (1866) c’è l’eco potente degli anni ai lavori forzati. Un assassinio che sembra un delitto perfetto: Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e la sorella, e riesce incredibilmente a non lasciare tracce. Nessuna prova. Dunque potrebbe farla franca. Ma ha di fronte un giudice di nuovo tipo, Porfirij: secondo lui non sempre i meccanismi istituzionali sono in grado di arrivare alla verità del delitto. Così osserva, riflette, indaga nel mondo interiore del presunto colpevole, scava nel suo sottosuolo. E arriva alla conclusione: il colpevole è lui, ma la giustizia, senza prove, non può far nulla. Raskol’nikov deve avere il coraggio, l’onestà di assumersi la responsabilità dell’atto commesso, confessare. Qualsiasi altra soluzione, e Porfirij glielo dice, non avrebbe senso: non la fuga (Raskol’nikov comunque si porterebbe dentro il peso del delitto), non il suicidio (atto di viltà, indegno di Raskol’nikov). Dunque non c’è che assumersi le conseguenze di ciò che ha fatto: un gesto di consapevolezza. Confessare, accettare la condanna, il castigo. La sofferenza, dice Porfirij, è una buona cosa, «vi porterà direttamente alla riva e vi rimetterà in piedi... abbiate un cuore grande, non abbiate timore... per un po’ di tempo nessuno vi vedrà, ma poi diventerete un sole e tutti vi vedranno...».
Accanto a Raskol’nikov c’è Sonja, la prostituta buona che crede nel Vangelo, nella resurrezione di Lazzaro, nella rigenerazione, che parte con lui per i lavori forzati, sicura di portarlo prima o poi verso la fede.
Il romanzo termina con un incubo di Raskol’nikov. Una inaudita pestilenza di provenienza asiatica devasta l’umanità con migliaia di morti. «Tutto e tutti perivano. Salvarsi in tutto il mondo potevano solo alcuni uomini: erano i puri, gli eletti, predestinati a iniziare una nuova razza e una nuova vita, a rinnovare e purificare la Terra». Anche con questo incubo Dostoevskij ci è vicino: rinnovare e purificare la Terra. Lo sentiamo dire molto spesso in questi giorni.
Il femminicidio
L’idiota (1868) finisce con un femminicidio. Dostoevskij ne esamina i meccanismi con un’impressionante lucidità. La bellissima Nastas’ja Filippovna è violentata da adolescente dal tutore, Tockij, che per anni ne fa la sua amante, poi decide di sposarsi, ma nella buona società le amanti non diventano mogli. Così decide di cederla al suo segretario, assegnandole una considerevole dote. Rogožin, uomo possessivo, impetuoso, passionale, innamorato di lei, si fa avanti, raddoppia la dote e se la porta via, gridando «È mia!». Nastas’ja si lascia comprare, ma non bastano centomila rubli per farla innamorare di Rogožin: è una donna inquieta, enigmatica, sfuggente. La ferita antica non si è rimarginata: la violenza subita la rende bisognosa di comprensione, tenerezza, soprattutto rispetto e Rogožin la desidera, ma non la rispetta. Allora Nastas’ja trova quello che cerca nel principe Myškin, l’idiota, uomo delicato, buono, attento, fragile, indifeso, malato di epilessia, totalmente privo di eros. Nastas’ja da lui si sente capita, accettata nella sua vulnerabilità, ma non desiderata come donna. Rogožin la investe con la sua irruente passione, ma si rende conto che non basta averla comprata. Nastas’ja è fisicamente con lui, ma in fondo è altrove, gli sfugge. C’è un solo modo per averla per sempre: ucciderla. E la uccide. Chiama a vegliare il cadavere, in una delle scene più emozionanti del romanzo, il principe. Ora non c’è più conflitto. Passano insieme una notte accanto al cadavere: dopo la veglia silenziosa, affondano entrambi nella follia. Entrambi sconfitti.
La bellezza salverà il mondo? Nastas’ja è bellissima, ma non basta. Per Dostoevskij la vera bellezza è la perfezione spirituale, è un valore assoluto che aiuta a dimenticare il proprio io, a vincere l’egoismo. La bellezza è presente non solo nella donna, ma in tutte le manifestazioni dell’essere, anche nella natura. Nessuno ne L’idiota è pronto a coglierla: non il troppo possessivo Rogožin, non il troppo astratto Myškin. Il cammino per raggiungerla è arduo.
Il fallimento dei demòni
I demòni: un romanzo (1871) che andava letto negli anni di piombo. Una formidabile denuncia dell’incoerenza, della superficialità politica, del criminale dilettantismo di certi gruppuscoli sovversivi, il cui unico scopo è creare caos, disordine. Al centro un manipolo di terroristi che organizzano un omicidio per destabilizzare la società, prendere il potere. Uccidono senza alcun reale obiettivo, falliscono, fuggono, si disperdono.
Dostoevskij vive gli anni del nichilismo trionfante, del brutale terrorismo culminato con l’uccisione dello zar Alassandro II nel 1881: vede con i propri occhi che il sangue delle vittime non serve che a rafforzare la reazione, a stringere i ranghi del potere, a indurre nella gente comune panico, sgomento, rifiuto. Due sono i capi del manipolo: Verchovesnkij, un farabutto che vive di intrighi, menzogne, usa le persone per i suoi giochi, progetta un totalitarismo dove la cultura non ha posto, e Stavrogin, ambiguo, enigmatico, narcisista, incapace di assumere responsabilità, indifferente a uomini e donne, pedofilo (il racconto dello stupro di una bimba viene censurato e verrà pubblicato solo nel 1926). Il loro complotto è fumoso, il loro credo oscuro: il primo si dilegua quando la polizia arresta gli altri membri, il secondo si suicida lasciando una lettera in cui dichiara: «Da me non è uscita che negazione, senza alcuna forza. Tutto in me è stato meschino, fiacco».
I demòni sono loro. Dostoevskij richiama la parabola dell’evangelista Luca, lascia una speranza alla fine: i demòni, usciti dal corpo dell’uomo russo, entrati nel gregge dei porci, alla fine affogheranno e l’uomo sarà libero. Un romanzo complesso, notturno (quasi sempre i personaggi agiscono di notte), violento (in nessun altro romanzo ci sono tanti morti), ma ricco di suggestioni per i nostri giorni.
L’Inquisitore demoniaco
Sono due le grandi lezioni dei Fratelli Karamazov (1880): le chiese, tutte le chiese, non solo la cattolica (ma qui di quella si parla) hanno deformato l’insegnamento del Cristo, lo hanno irrigidito in norme, dogmi, precetti, togliendo quella grandiosa libertà che rende l’uomo responsabile delle proprie scelte. Il Grande Inquisitore dice chiaramente al Cristo ritornato sulla Terra: vattene, non servi più, noi abbiamo deciso quello che è bene e quello che è male, e l’uomo ci è grato di avere scelto per lui. Troppo faticosa la libertà: l’uomo preferisce delegare, obbedire. Cristo perdona la Maddalena, la Chiesa condanna la prostituta (e Dostoevskij fa di una prostituta il personaggio più spirituale di Delitto e castigo). L’Inquisitore confessa: io sto con Lui (il demonio) non con te, e l’uomo preferisce me che gli dico come comportarsi, togliendogli ogni responsabilità.
Sulla torva figura del vecchio prelato ci si arrovella da più di un secolo: fino a che punto oggi siamo davvero liberi nei nostri comportamenti, nelle nostre scelte?
L’altra grande lezione è legata al personaggio di Ivan Karamazov: è il cattivo maestro che usa la parola senza rendersi conto della violenza che nasconde. Cinico, ateo, ribelle, predica il «tutto è permesso», la totale amoralità, ma quando si accorge che il parricidio, a cui si crede del tutto estraneo, è invece frutto delle sue teorie, ascoltate da chi le mette in pratica, non regge e impazzisce.
La vita come un romanzo
Non fu facile la vita di Dostoevskij. La recente edizione dell’epistolario (Il Saggiatore) ce la fa percorrere fin dall’inizio: anch’essa un autentico romanzo. Al fulminante debutto con Povera gente nel 1846, salutato come un autentico capolavoro, segue la relativa delusione della seconda prova, Il sosia, considerato troppo contorto (il tema del sosia ritornerà in tutta la sua produzione, fino ai Karamazov, dove Ivan si confronta in un’allucinazione con il diavolo, suo sosia inquietante). Poi una serie di racconti tra cui Notti bianche e finalmente l’arresto.
La lettera al fratello Michail prima della partenza, in catene, per la fortezza di Omsk e quella dopo quattro anni di silenzio (ai forzati era vietata qualsiasi corrispondenza) sono testimonianze emozionanti della forza di carattere, della serenità, dell’energia interiore dello scrittore. Pochi anni di relativa serenità, poi nel 1864 muore il fratello con cui lavora alla rivista «L’epoca»: costretto a chiuderla, pieno di debiti, fugge all’estero per evitare l’arresto. Per quattro anni vive in miseria grazie a prestiti di amici e ad anticipi di editori spesso non generosi, lavorando come un forsennato ai romanzi che uscivano a puntate su riviste. Rientra a Mosca nel 1871 ma la salute malferma, i frequenti attacchi di epilessia di cui soffre fin da giovane, l’ansia di consegne sempre più urgenti rendono difficili gli ultimi anni.
Solo il trionfo dei Karamazov e le ovazioni al discorso celebrato in onore di Aleksandr Puškin nel 1880 gli danno un estremo conforto.