Huffington Post, 25 dicembre 2020
L’anno dell’umarell collettivo
Sia per tutti un buon Natale, ma i miei auguri preminenti vanno oggi a due amici, Maurizio Crippa e Giovanni Orsina. Maurizio Crippa ha scritto l’altro giorno sul Foglio un articolo che compendia il 2020 o forse gli ultimi due secoli, e in poche righe delimita il pozzo in cui ci siamo calati, noi formiche di una società vittimaria ed emozionale (come diagnostica l’Express, spiega Crippa, in un’intervista a Emmanuel Macron). Ricorda la Cultura del piagnisteo di Robert Hughes, un libro del 1994 e già un classico, la costante pretesa di un risarcimento delle sventure o, in tempi meno tempestosi di questo, dell’infelicità, la nascita del reality del commento permanente. Ovvero, c’è sempre qualcosa da ridire. E nemmeno la critica, piuttosto il processo, sommario e popolare, al governo, all’opposizione, alla scienza, alla tv, ai giornali, agli industriali, alla magistratura, a qualsiasi pensiero passi di lì, ultimamente si è introdotto il processo alla storia per condannare in contumacia gli antichi colpevoli (molto presunti) dei disastri moderni: alla sbarra Cristoforo Colombo e Winston Churchill, per esempio, giudicati su codici contemporanei al gusto contemporaneo, un po’ frivolo, un po’ volubile.
Non so se Crippa abbia letto La fine del dibattito pubblico di Mark Thompson, già direttore generale della Bbc, poi amministratore delegato del New York Times. Il libro di Thompson non raggiunge le altezze di quello di Hughes, ma è stato scritto nel 2006, quando la società vittimaria ed emozionale si era ormai impadronita del web, l’arma maneggevole e universale del piagnisteo. Sul web ognuno di noi raggiunge il diritto di impancarsi a magistrato, filosofo, sociologo, economista, premier, in sostituzione di magistrati, filosofi, sociologi eccetera responsabili, nel loro ruolo elitario – molto malamente definito elitario – di non aver condotto il pianeta allo splendore del giardino terrestre. Il commentatore vittimista non necessita di una competenza né tantomeno di una cultura, il preteso insuccesso altrui è il suo pulpito, e comunque lui è il raggirato, è il turlupinato, tanta basta a dargli voce con solidità di legge. Né l’instancabile dissertatio commentatoria gli impone di conoscere l’oggetto che critica, gli basta essersene fatto un’idea, una mezza idea, un a prima vista, il titolo, il sunto massimo, una frase tirata fuori perché slegata suona sufficientemente biasimevole da chiamare a raccolta il popolo giustiziere, ed è tutto consentito perché il linciaggio di oggi non prevede spargimento di sangue: ci si accontenta di calunnia, diffamazione, discredito, di trascinare chiunque nell’evidenza di un peccato a cui è estraneo: il razzismo, il sesssimo, il fascismo, o la pura e semplice imbecillità.
A Giovanni Orsina – editorialista della Stampa, storico e politologo della Luiss – vanno i miei auguri preminenti poiché, forse conoscendo il mio amore per Johan Huizinga ed Elias Canetti per i loro studi sulle masse, mi ha imposto con autorità di cattedra di leggere La ribellione delle masse di José Ortega y Gasset, un saggio semplicemente monumentale scritto oltre novant’anni fa. Ortega y Gasset, molto prima del trionfo stordente dei social, descrive la massa composta da signorini soddisfatti autorizzati a intervenire su tutto e sempre con violenza, hanno opinioni superficiali eppure tassative, la loro forza è l’onnipresenza e la rapidità, prima si lasciavano governare supinamente, ora vogliono governare, sono affascinati dall’imprevista potenza della loro voce e dalla facilità con cui mettono all’angolo chiunque, e se mettono all’angolo uno che ne sa dieci volte di più tanto meglio, poiché ritengono il loro buon senso più notabile della polverosa cultura.
È un atto di vendetta in nome degli oppressi di ogni secolo e latitudine e, scrive Ortega y Gasset, fonda il mondo dello chantage, del ricatto universale, c’è lo chantage della violenza e dell’umorismo, l’una e l’altro bastevoli a esonerare il signorino soddisfatto dalla minima disciplina, cioè dalla morale, e a innalzarsi con lo sforzo di uno schiocco di dita al ruolo simultaneo di parte lesa e giudice.
Se dodici mesi fa avessi saputo dell’arrivo e degli effetti della pandemia, che non saprei definire se non hollywoodiani, avrei pensato a una sanificazione mondiale dei cervelli. Ecco un evento talmente immerso nell’ignoto da scoraggiare il signorino soddisfatto, da farlo (farci) pietrificare di consapevolezza, dell’infinita piccolezza dell’uomo davanti all’enormità del tempo e dello spazio, del mistero assoluto in cui siamo immersi e che abbiamo pensato di dissipare con l’illuminismo – elevato a dittatura – e poi con la dittatura del buonsenso da birreria. Macché. Non ci avrei preso neanche stavolta. Il 2020 è stato l’anno dell’umarell collettivo, tutti lì a guardare a braccia conserte attraverso uno schermo il disastro degli altri, a commentare e irridere gli errori, a lamentarsi dell’inconcludenza, un’indole esplosa come un fuoco d’artificio e salita alla psichedelia con le allucinate norme di regolamentazione natalizia e le allucinanti geremiadi conseguenti, strepitosamente riassunte nell’ironia di Giuseppe De Filippi: zona rossa, proteste di Federtombola.
Perché, e concludo, la novità degli anni recenti è che la ribellione delle masse ha fatto fuori le élite per la ragione che le élite si sono prontamente adeguate alle regole d’ingaggio nuove: campano di tweet, di frasette bacioperugina, di sentenze spaventose e inappellabili, di motteggio da ritornello sanremese, suonano la trombetta del talk show, navigano in superficie e favore di vento, tutto il giorno e tutti i giorni nella sola speranza di venire carucci, che il selfie esca bene. Siamo diventati tutti, in definitiva, gli schiavi descritti da Martin Heidegger, immersi nell’immediata dipendenza di qualsiasi opposizione e qualsiasi combattimento: la faciloneria con cui si è concessa e poi revocata a Roberto Saviano la cittadinanza onoraria di Verona, e il successivo dibattito a pugni sul tavolo, mi sembrano l’ultimo e illustre esempio. Il 2020 è diventato l’anno della ribellione delle masse, ma non si sa più contro chi ci si ribella poiché tutti sono ribelli e tutti sono massa. Quando dovesse sfociare in una ribellione a noi stessi, quello sarà Natale. Un buon Natale.