Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2020
Quell’atleta ha davvero il tocco magico
L’espressione inglese è «hot hand», ed è intraducibile. Si potrebbe renderla con un calco, «mano calda», orribile come tutte le forme di colonialismo. «Mano fatata» e «tocco magico» colgono in parte nel segno ma suggeriscono condizioni stabili: persone che in ogni circostanza mostrano sensibilità e perizia negate ai comuni mortali. «Sulla cresta dell’onda» cattura il fatto che qui si sta invece parlando di una fortuna che va e viene, ma sposta l’attenzione all’esterno: è l’onda che ci sostiene e un attimo dopo ci travolge, mentre chi ha lo hot hand («hand» è neutro), finché dura, è padrone del suo destino. Decido dunque di non tradurre: hot hand sia.
Sembra innegabile che lo hot hand esista. Newton fece le sue principali scoperte in un solo anno mirabile, e Einstein nel 1905 pubblicò quattro fondamentali memorie scientifiche e vinse il Nobel per una di esse, non (si noti!) quella in cui introduceva la relatività ristretta. Shakespeare compose Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra in un paio di mesi; Nietzsche fu molto caldo nel 1888, quando portò a termine cinque libri prima di raffreddarsi per sempre. E ci sono giocatori, atleti e squadre che vivono il loro momento di grazia. Per Ben Cohen, redattore sportivo del «Wall Street Journal» che allo hot hand ha dedicato un libro omonimo, c’è soprattutto un atleta di straordinaria eleganza, un folletto che volteggia sui campi dell’NBA realizzando imprese mai prima tentate, un cecchino impareggiabile che, quando gli si scalda la mano, sembra sfuggire alle leggi della fisica. Cohen ne parla spesso: è chiaro che nutre per Stephen Curry una sconfinata ammirazione.
Non si ferma qui, e quanto d’altro fa è degno a sua volta di essere ammirato. Studia gli scienziati che si sono occupati di hot hand; con quelli ancora in circolazione parla; e ci informa con cognizione di causa ed esemplare chiarezza delle alterne vicende del dibattito. Dice Gramsci nei Quaderni: «[ci] dovrebbe essere una maggiore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali, divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non più di giornalisti onnisapienti e di autodidatti presuntuosi». Immagino accoglierebbe l’emendamento amichevole di far rientrare fra i seri partecipanti a tale sforzo anche un giornalista non onnisapiente ma profondo, ingegnoso, appassionato.
L’immagine speculare dello hot hand è la fallacia di Montecarlo: se un numero (della roulette, del lotto) non è uscito per molto tempo, conviene puntarvi sopra; se lanciando una moneta tre volte viene sempre croce, la prossima volta conviene scommettere che venga testa. Ragionare così è fallace perché ogni giro della pallina, ogni estrazione di un numero, ogni lancio di una moneta è indipendente da ogni altro; quindi quel che è capitato nei lanci, estrazioni e giri precedenti non ha nessun influsso su quel che capiterà in futuro.
Gli esseri umani hanno idee preconcette ed errate su come debba procedere una sequenza di eventi casuali: ritengono che non possa essere un caso se una moneta mostra croce venti volte di fila, e quando costruiscono ad arte sequenze casuali evitano simili ripetizioni. E ancora: gli esseri umani tendono a identificare schemi sensati anche dove non ci sono, e a ipotizzarne un fondamento. Se un cestista imbrocca una dozzina di bombe da tre punti, deve esserci un responsabile: un fatato hot hand.
Nel 1985 Thomas Gilovich, Robert Vallone e Amos Tversky pubblicarono un saggio dal titolo The Hot Hand in Basketball: On the Misperception of Random Sequences, in cui sostennero l’inesistenza dello hot hand. Curry è un giocatore che, in carriera, realizza il 50% dei tiri, ma ciò non vuol dire che realizzerà un canestro ogni due tiri. Procedendo in modo casuale, i suoi canestri si aggregheranno talvolta a decine e talvolta mancheranno a lungo all’appello; guardiamo al conto finale e non fantastichiamo di uno hot hand.
Il saggio fece sensazione, perché andava contro il senso comune. Chiunque abbia assistito a una partita «speciale» di Curry o sia rimasto attonito contemplando i periodi di sfrenata produttività di Shakespeare e Newton è convinto di essere in presenza di occasioni eccezionali, in cui i pianeti si allineano e avvengono miracoli. Invece? Pura e semplice distribuzione casuale, che proprio in quanto casuale dà l’impressione di non esserlo. Da allora il senso comune si è ritirato in buon ordine, anzi un nuovo senso comune si è affermato fra gli addetti ai lavori: lo hot handnon esiste.
Poi il pendolo ha oscillato di nuovo. I lanci di una moneta o i giri di una pallina saranno forse indipendenti gli uni dagli altri, ma le acrobazie di Curry e di Shakespeare non lo sono. Un essere umano che ottiene un risultato di eccellenza ne viene spronato ad andare oltre, a superare i limiti suoi e di altri; ciò gli permette di superarli, e di ottenere risultati di sempre maggiore eccellenza. Lo hot hand esiste e Gilovich, che oggi insegna a Cornell, lo ammette con onestà e buonumore.
Ne seguono due lezioni generali. Primo, evitiamo di disprezzare quel che pensano tutti. Dice sarcastico Bob Wardrop, professore di matematica in Wisconsin: «Un modo di guadagnarsi da vivere, per un accademico, è dimostrare quanto sono stupide le persone normali». Ma, appunto, non sempre lo sono: ogni fan di basket sa che Curry, spesso, ha uno hot hand e, guarda un po’, ha ragione.
Per ora, almeno: la seconda lezione infatti è che la scienza non fornisce certezze ma congetture più o meno probabili, che dominano il campo finché non si fa avanti una più probabile. I veri scienziati lo sanno. Così Cohen descrive l’atteggiamento di Carolyn Stein e John Ezekowitz, che hanno contraddetto le tesi di Gilovich, Vallone e Tversky: «Le persone meno affascinate dalla loro affascinante ricerca sono loro stessi. Come tutti gli scienziati di valore sono scettici, anche sui propri risultati». È bene riflettere su queste parole, in tempi in cui «la scienza» non fa che diramare dogmi a destra e a manca.