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 2020  dicembre 27 Domenica calendario

QQAN20 Su "Il mestiere dell’ombra" di Renata Colorni (Edizioni Henry Beyle)

QQAN20

«Conosco il tedesco fin da bambina perché mia madre, Ursula Hirschmann, ebrea e socialista berlinese fuggita nel 1933 dalla Germania, donna di luminosa intelligenza e forte volontà, non ha mai voluto separarsi del tutto dalla propria lingua, né permettere che in famiglia essa andasse perduta». Si apre così il libretto di Renata Colorni, Il mestiere dell’ombra. Tradurre letteratura. E si avvia al congedo con un ulteriore ricordo della madre dell’autrice che alla figlia ha lasciato in eredità l’interesse e la passione per Der Zauberberg di Thomas Mann, che la Colorni ha infine familiarmente tradotto per i «Meridiani» di Mondadori (da lei diretti) con il titolo La montagna magica: «È stato per me un dono meraviglioso ridare vita a settant’anni al più filosofico dei grandi romanzi di Mann, testo intensamente erotico e musicale prediletto da mia madre». 
Il mestiere dell’ombra è un libretto di felice intensità. È un libro piccolo e affabile che cresce e si espande con la lettura. Si presenta come l’autobiografia di una traduttrice, diventata funzionario e dirigente editoriale, che con la lingua tedesca ha un legame affettivo oltre che culturale. Ma non si chiude in sé. Si apre per diventare un elogio della traduzione letteraria. Torna a riaprirsi per farsi scoprire come un sintetico panorama della editoria di qualità che ha saputo mantenere «un legame imprescindibile» con le buone traduzioni. Si riconfigura come un manualetto che introduce al laboratorio della traduzione, tra artigianalità e talento. L’impianto elastico del libretto è di accattivante semplicità. I paragrafi sono segnalati da citazioni che sembrano epigrafi. 
Una data si impone in questo affascinante racconto autobiografico. È il 1973. L’editore Paolo Boringhieri assume Renata Colorni perché traduca e annoti le opere di Sigmund Freud: in tutto undici volumi più un dodicesimo di Indici. Un lavoro durato più di sei anni. Un’operazione coraggiosa e lungimirante: «una iniziativa che nessun editore oggi potrebbe permettersi, se non forse una fondazione, un centro di studi, o il Cnr, ma certo non un’impresa privata finalizzata al profitto, anche se profondamente interessata allo sviluppo e alla diffusione della cultura scientifica e del pensiero psicoanalitico». Renata Colorni ha fatto indossare a Freud un nuovo abito linguistico, coerente, vivido ed efficacemente letterario. Ha inventato una lingua congeniale alla prosa di Freud: «le difficoltà per il traduttore non stanno tanto nella comprensione del suo pensiero, che è quasi sempre limpido, solidamente strutturato, e ricco di ambiguità promettenti – che il buon traduttore è chiamato a mantenere -, né nell’imitazione della sua sintassi, classicamente ordinata, ma piuttosto nella restituzione – questa sì, ardua e pericolosa – di un equilibrio da lui ottenuto con miracolosa naturalezza tra “bellezza” e “necessità”».
Roberto Calasso e Luciano Foà riconoscono subito la qualità letteraria della traduzione freudiana. Chiamano la Colorni alla Adelphi. E le affidano «la cura dei testi di letteratura tedesca»: le traduzioni e le revisioni dei testi da altri tradotti. Il lavoro del revisore esige competenza e delicatezza: «Un revisore deve essere, com’è ovvio, un bravo traduttore. Tuttavia non può e non deve limitarsi ad imbracciare la matita rossa e blu che indica l’errore, la falla, la svista, il piccolo salto, che certamente egli è tenuto a rilevare ed emendare, ma senza che in questo si riduca o possa dirsi esaurito il suo intervento. Il revisore deve stabilire fin dall’inizio un contatto molto stretto col traduttore. È importante che ci si parli, che ci si capisca, perché anche un traduttore bravo, un professionista che ha lavorato molto bene su un certo autore, può non essere in consonanza col testo che gli si propone di tradurre o con i criteri che, a torto o a ragione, l’editore ritiene fondamentali. Di fronte alla traduzione ultimata, il revisore dovrà poi mettere a disposizione di ogni pagina tutta la propria competenza e creatività».
Il traduttore «esegue» l’opera in una lingua diversa dall’originale. Il termine usato è musicale: «Mi piace … pensare al traduttore, come a un esecutore, a un interprete, a un attore, come diceva Cesare Garboli. Lo scrittore scrive con uno strumento suo, un linguaggio esclusivo, se ne sta acquattato dentro al suo mondo... e noi traduttori volgiamo i suoi contenuti e forme e suoni e ritmi in una realtà linguistica e culturale altra, in un diverso universo musicale, lo interpretiamo, e forziamo e provochiamo la nostra lingua fino a condurlo nel nostro mondo. La prima fase del lavoro che abbiamo scelto consiste nel mettersi in devoto ascolto della voce dell’Autore … Nella seconda fase sentiamo però nascere in noi il senso orgoglioso di essere a nostra volta autori, inventori, creatori … noi che … allo straniero siamo fieri di prestare la nostra voce, noi che nella nostra lingua stiamo per diventare quello che lui è nella sua».