La Stampa, 27 dicembre 2020
Gli 80 anni di Joan Baez
Alcune persone nascono con un dono nella vita, un prezioso regalo che diventa lo strumento di una missione. Quella di Joan Baez è stata di applicare il suo purissimo soprano a una infinita serie di canzoni, un compendio di musica d’autore che raccontasse in modo poetico e critico un’America e un mondo che mutava nei decenni. Una donna che è stata dalla parte giusta della storia. All’inizio era la Regina del Folk, in quel momento l’unica musica a disposizione, quella che negli Anni 50 era in cima alle classifiche, e il veicolo di tutte le canzoni impegnate, sociali, politiche. Poi arrivò Dylan, e riscrisse le regole: folk music, sì, ma contemporanea, che trattasse dei temi che cominciavano a sensibilizzare intellettuali e ragazzi: la Bomba, il Vietnam, la lotta contro la segregazione della black nation. E’ stata la prima a raccogliere il messaggio e ad aprirsi ai nuovi cantautori che sulla scia di Dylan cominciavano a raccontare la realtà lontana dalle banalità della pop music.
Quasi 60 anni dopo, Joan è ancora lì, i lunghi capelli corvini imbiancati e tagliati corti, elegante nelle movenze e nel vestire, il tono di voce leggermente abbassato ma ancora cristallino, e se possibile ancor più consapevole e intenso. Dipinge e balla salsa tutte le mattine. Nel 2018 ha pubblicato il 25° album in studio (+15 live), Whistle Down The Wind, davvero bello, con canzoni scelte con cura nel repertorio di Tom Waits e Josh Ritter, Mary Chapin Carpenter e (nell’incedere drammatico di Civil War) Anonhi, il nuovo nome di quel miracolo di vocalità che è Anthony and the Johnsons. Un’interpretazione che le è valsa una nomination ai Grammy come miglior album folk. Poi il suo ultimo tour mondiale, e appena terminato è scattato il lockdown.
Joan risponde al telefono con voce brillante e accogliente dal suo buen ritiro nella campagna californiana, villa, terreno e una casetta sull’albero. «Sto in un bel posto, non devo andare da nessuna parte, sono fortunata nel poter fare cose che aiutino gli altri». L’occasione è quella che ci auguriamo tutti, arrivare ad 80 anni il 9 gennaio senza aver perso nulla delle proprie capacità creative e di lettura di quello che succede nel mondo, e negli USA di cose di cui discutere indignati ne stanno succedendo, proprio in questi giorni in cui un Re Lear incapace di pensare a sè come uno sconfitto rifiuta di occuparsi del suo popolo e si rifugia nel suo resort a giocare a golf. «Mio Dio, che incubo, a volte ci ridi ma più spesso c’è da piangere. Come disse Nietzsche, non è che non gli importa, c’è proprio un gusto per la crudeltà, come vedere i bambini messicani nelle gabbie. Il problema son però coloro che gli rimangono attaccati. Quello che ci rimane come lezione da quest’anno terribile è come riuscire a mantenere l’empatia, senza cui non si possono prendere decisioni civili. Dovremo tornare alla normalità, anche se da noi son quattro anni che la normalità non esiste. Biden è uno sweetheart, un uomo dolce, ha empatia e compassione e ne abbiamo veramente bisogno, adesso».
Le dico che in fondo certe cose non muoiono mai: nel 1973 prestò la sua voce a un brano molto emotivo per il film Sacco e Vanzetti, la storia di Nicola and Bart scritta sulla musica del maestro Morricone e portata in cima alle classifiche. Non era anche quella una storia di razzismo e pregiudizio? Cosa pensa di Black Lives Matter?«Credo che siamo tutti più razzisti di quello che pensiamo, personalmente ho cercato di vedere quali sono le mie aree di intolleranza, di ignoranza, di ascoltare le persone a cui magari non abbiamo prestato attenzione, anche se da bianco benestante è impossibile capire davvero cosa vuol dire essere neri. Ho letto il libro di un ex-nazi e skinhead che cerca di riabilitarli, dice che l’ideologia non serve, l’unica cosa che puoi fare è ascoltare, e forse puoi aprire una fessura nella porta». O come diceva Cohen,«c’è sempre un passaggio attraverso cui la luce può entrare». «E’ esattamente quello di cui parliamo», chiosa.
Rispetto agli Anni 60, cosa vede di diverso?«Allora c’era un senso di fratellanza, avevamo l’un l’altro, la musica. Non sai quando può ripetersi, ma i giovani ne hanno avuto un assaggio durante la prima campagna presidenziale di Obama: non quando è entrato nell’Ufficio Ovale, lì è impossibile fare nulla, prima. Sarebbe stato un ottimo leader di un movimento, eravamo tutti felici, sai quando ti dai il cinque in metro con degli sconosciuti. I ragazzi forse hanno capito cosa vuol dire stare insieme, spero sia rimasto nel loro DNA».
La storia di Joan si intreccia strettamente con quella del nostro paese, e non solo perché «a good song takes you far», ti porta ovunque nel mondo. Un legame forte, fatto di persone e di tournèe, rinsaldato ancor di più quest’ anno. Dieci anni fa, partendo da zero, ha chiesto a un’amica pittrice di insegnarle, ha scelto l’acrilico e si è messa giù con curiosità e la dedizione che le è propria. Nella scorsa primavera ne ha dipinto uno ispirato alla risposta «sbalorditiva, confortante e coraggiosa» degli italiani che vedeva in tv, che per esorcizzare la paura e condividere il dramma cantavano dai balconi. Una volta postato, Viva Italia ha attratto così tanto interesse che ha deciso di farne 100 stampe vendute a 500$, esaurite velocemente con il ricavato donato alla Fondazione Specchio Dei Tempi. Ma la cosa particolare di questo quadro è che è stato dipinto capovolto: «Serve a utilizzare una parte diversa del cervello, per fare cose che non controlli». E’ una perfetta metafora per questo mondo al contrario che stavamo già vivendo per molti versi prima, e che il Covid ha solo enfatizzato, suggerisco.
Oltre a questo, sul suo sito joanbaezart.com c’è una galleria di «mischief makers» gente che ha sovvertito le regole e cambiato il mondo. In fondo, sono la rappresentazione visuale dei temi delle sue canzoni: da Martin Luther King a John Lewis, dal Dalai Lama a Ram Dass, Gandhi ed Eleanor Roosevelt, la scomparsa Giudice Costituzionale Ruth Bader Ginsburg, RBG, e il giovane Dylan (Baby Blue). Per lei tutto è cominciato a 13 anni, ascoltando Pete Seeger, con Woody Guthrie il padre della canzone politica. Se fosse una teenager adesso a chi guarderebbe per ispirazione? Ci pensa un po’: «Gente come Anthony Fauci, che ha avuto il coraggio di non fare un passo indietro. Ma se penso ai ragazzi di adesso, c’è Greta Thunberg, saggia e senza paura. In America pensano che tutto sia dovuto, ma per operare dei cambiamenti devi prenderti dei rischi, e lei lo fa».
E delle nuove cantautrici, chi le piace? «Lana Del Rey, che credo canti benissimo, mi ha chiesto se potevamo cantare insieme dal vivo Diamonds and Rust (il suo meraviglioso hit single del ’75, ispirato da una telefonata, dieci anni dopo il loro addio, di Bob Dylan), e le ho detto "ma Lana, i tuoi spettatori hanno 16 anni, che ne sanno di me?". "Non ti preoccupare - mi ha risposto - spesso portano anche i genitori"».
E allora, fra una riflessione, un ricordo e una risata, happy birthday Joan, e grazie per essere stata così solida e coerente in tutti questi anni, per aver dato voce alle moltitudini che voce non avevano, per essere andata dove contava, fossero le dittature del Cile di Violeta Parra o dell’Argentina di Mercedes Sosa, Hanoi o la Cecoslovacchia di Havel o la tormentata Italia Anni 70. Grazie per aver parlato a favore di tutte le cause sociali, civili, ecologiche, LGBT, politiche, sempre con passione e quello stile innato. Cosa vorresti per regalo, a questo compleanno da cifra tonda? Ridacchia… «Ecco, cifra tonda è una buona maniera di metterla». Ci pensa un attimo: «Qualcosa che nessuno penserebbe, un gioiello spettacolare. Non importa quale, vecchio o nuovo, qualcosa che brilli».